Sono fantasmi dell’inconscio individuali e prodromi di uno sradicamento sociale quelli raccontati da Rose Glass in Saint Maud e Love Lies Bleeding, finora i due unici film di un’autrice decisamente sui generis. Perché, in effetti, ciò che la regista fa affiorare sullo schermo aderisce a una precisa scelta stilistica e a una poetica ben definita: l’allucinazione mistica o l’incubo lisergico, rispettivamente di una scomunicata e di due emarginate all’interno di contesti retrivi e corrotti.
Se la scelta estetica rispecchia in entrambi i casi un compiacimento nei confronti di suggestioni cinefile, siano esse strettamente collegate al genere (da Cronenberg a Verhoeven, passando per le più vicine Coralie Fargeat e Julia Ducournau), dal punto di vista del contenuto, Glass inscrive nel rapporto femminile a due la riflessione sulla fede e sul proprio credo individuale, all’interno di microcosmi respingenti e potenzialmente dopanti.
Dalla Dublino di Saint Maud al polveroso e cupo New Mexico di Love Lies Bleeding, il filo conduttore è sempre la dipendenza da sostanze tossiche, siano esse gli steroidi che trasformano i corpi femminili nel secondo film, o il fanatismo religioso che diventa ossessione sanguinolenta nel primo lungometraggio: in entrambi i casi le atmosfere che la regista britannica materializza sullo schermo raccolgono umori corporei e trasudano nevrosi, per poi esplodere in una violenza iperbolica, a tratti splatter, che allarga gli orizzonti dell’autoreferenzialità di genere per collocarsi in uno spazio familiare che si fa anche visione politica.
L’ambiente ostile in cui cerca di sopravvivere Lou, titolare di una palestra, è il criminale New Mexico, pullulante di narcotrafficanti, contrabbando di armi e pregno di un’ideologia patriarcale dedita al controllo della famiglia, del territorio e dei corpi (“your body, your choice” dirà Lou a Jackie prima di concederle gli steroidi). Una volta fatta la conoscenza di Jackie, avvenente culturista proveniente dall’Oklahoma e desiderosa di raggiungere il successo a Las Vegas, si scatena un irrefrenabile e libidinoso tumulto. L’idillio nato tra le due si scontra con la famiglia disfunzionale di Lou che le conduce verso una spirale di violenza e orrore.
L’elemento più interessante che si può rilevare in Love Lies Bleeding è la sovrapposizione di registri differenti che consentono alla regista di esplorare il territorio del crime movie in modo innovativo, strizzando l’occhio al body horror e alla fantascienza metamorfica (che fa pensare a Glazer) e, nello stesso tempo, analizzando le realtà delle periferie degradate con l’occhio allenato che è tipico di Jeff Nichols o di Scott Cooper; inoltre, la ruvidezza del racconto americano si sposa alla riproduzione mimetica degli anni Ottanta, laddove la radio, che racconta l’epoca delle droghe e delle prime brecce nel muro di Berlino, funge da guida per una fugace immersione nella storia di un’epoca e di due anime nomadi.
Gli incubi e i deliri di una provincia sporca, purulenta e intossicata, esplodono a tutto schermo in un’efferatezza grandguignolesca e convivono con le atmosfere rarefatte del sogno americano infranto: quello di Lou, incapace di emanciparsi dalla famiglia che odia e quello di Jackie che, come Pearl nel film di Ti West, cerca il successo a tutti i costi; entrambe, simboli di perdita e personificazioni dell’isolamento sociale.
Love Lies Bleeding è un veleno che Glass inocula sottopelle, attraverso gli sguardi taglienti dell’ombrosa Lou (Kristen Stewart), le losche strategie del padre criminale (Ed Harris) e la furia indomabile di Jackie (Katy O’ Brian), all’interno di studiate e affascinanti contaminazioni cinefile che celebrano amore incondizionato per una materia viva e pulsante: un Drive-Away Dolls brutto, sporco e cattivo, carico di umori femminili impazziti, gravido di un immaginario ipertrofico e allucinato e con un’ironia nera di fondo che non ha bisogno di didascalie.