Lee ha un’ossessione che si chiama Eugene. Nell’America degli anni Cinquanta, usare il termine “queer” per definire la propria identità Lgbtq+ è ancora un gioco di equilibri tra lo spregio e la rivendicazione sottovoce, ma vira soprattutto verso l’accezione negativa. Il protagonista di Queer, adattamento diretto da Luca Guadagnino del libro omonimo di William Burroughs, usa quel termine con riluttanza, dominato dalla sensazione di avere pulsioni incontrollabili e sbagliate che lo condanneranno a vivere ai margini della società.

Owen e Maddy sono due adolescenti con un’ossessione che si chiama “The Pink Opaque”. È uno show televisivo che racconta di Isabel e Tara, due ragazze con i superpoteri fisicamente lontane tra loro ma telepaticamente connesse; in ogni episodio combattono un nemico mandato dal loro principale antagonista, Mr Malinconia.

A volte, racconta Maddy (Brigette Lundy-Paine), quello show le sembra più vero della realtà: “Non hai la sensazione – chiede a Owen (Justice Smith) – di narrare la tua stessa vita? Non ti sembra di guardarla mentre scorre davanti ai tuoi occhi, come un episodio televisivo?” Maddy non può saperlo, ma lo spettatore ha già la risposta: fino ad allora, infatti, Owen si è raccontato rivolgendosi direttamente a lui.

Questo senso di straniamento è centrale in Ho visto la TV brillare, scritto e diretto da Jane Schoenbrun. Owen e Maddy sono intrappolati in una vita insoddisfacente, in corpi che temono il contatto con l’altro e che sembrano loro vuoti, sbagliati. Dopo una sparizione di otto anni, Maddy ricompare nella vita di Owen per avvisare l’amico che la sua esistenza è un’allucinazione in un corpo sbagliato.

La realtà “vera” è quella della serie tv, e i loro veri nomi sono Tara e Isabel. Lo show è davvero più vero della realtà – lo show è la realtà. A unire i due protagonisti di Ho visto la TV brillare è quindi la sensazione di essere disallineati rispetto al resto del mondo, assenti a loro stessi e, per questo, condannati ai margini della realtà che abitano.

Anche il protagonista di Queer, Lee (Daniel Craig), conduce a suo modo una vita assente a sé stesso, spendendo i propri soldi in palliativi: alcol (moltissimo) e droga, prima ogni tanto e poi sempre più, da quando conosce Eugene. Eugene (Drew Starkey) non è apertamente “out” e tratta il suo corteggiatore in modo altalenante, a tratti indulgente e a tratti scostante.

Se, come scriveva Jack Kerouac, “la beat generation è un gruppo di bambini all’angolo della strada che parlano della fine del mondo”, il protagonista di Queer sembra piuttosto votato a dimenticare attraverso ogni mezzo l’apocalisse personale che attraversa il suo corpo, fatta di un desiderio quasi doloroso di contatto che non trova mai piena soddisfazione.

Guadagnino convoglia questo senso di angoscia incombente attraverso immagini fantasmatiche, dando corpo alle pulsioni e alle allucinazioni del suo protagonista. Tuttavia, Queer non verbalizza quasi mai le angosce, i desideri o i tormenti dei due uomini, lasciando a chi guarda il compito d’interpretare quelle immagini fantasmatiche e di riempire i vuoti. Possiamo solo supporre che, quando Eugene e Lee partono per un viaggio in Sud America con l’obiettivo di provare lo yuge – sostanza allucinogena che favorirebbe la telepatia – le motivazioni che li guidano siano diverse.

Forse, Lee è alla disperata ricerca di una connessione, di una comprensione profonda dell’oggetto del suo desiderio, o magari cerca solo una nuova sostanza psichedelica. Non è del tutto chiaro nemmeno se Eugene lo segua in questa avventura per indolenza, per curiosità o per amore ben celato. Una frase lega il rapporto tra i due nel corso della loro storia: “Non sono queer, sono disincarnato”. Ed è sintomatico che l’unico momento di profonda e sincera comunione tra Eugene e Lee, favorito dallo yuge, veda i corpi dei due amanti fondersi letteralmente tra loro in un abbraccio.

Queer e Ho visto la TV brillare sono quindi due film per certi aspetti comparabili, nonostante le differenze di storia, tono e sguardo autoriale: entrambi raccontano identità Lgbtq+ e, nel farlo, impiegano una modalità narrativa talvolta ermetica e straniante. Guadagnino lascia più zone d’ombra nell’interpretazione dei sogni e delle allucinazioni di Lee; Schoenbrun, invece, apre allo spettatore squarci perturbanti nella quotidianità dei suoi protagonisti.

Quegli squarci sono funzionali soprattutto a convogliare l’inquietudine disforica di Owen, bloccato in un mondo e in un corpo che non sente propri: si pensi alla scena in cui l’adolescente pratica un’incisione sul suo petto come su un tavolo operatorio e, invece di vedere i propri organi interni, trova solo il rumore statico di una tv.

La narrazione straniante di entrambi, che non punta a fare leva sull’empatia dello spettatore, ha peraltro forti eco lynchane. Per Lynch lo straniamento è soprattutto funzionale a mettere in scena l’orrore che si cela dietro il velo della realtà quotidiana, orrore da cui nessuno è, in fin dei conti, esente.

Guadagnino e Schoenbrun, invece, ricorrono a una rappresentazione onirico-simbolica che convogli l’alienazione delle identità queer a cui non è concesso esprimersi liberamente. Ed è probabilmente per questo che entrambe le storie ruotano intorno alla tensione verso la telepatia, che rappresenta una connessione immediata e squisitamente mentale.

Il corpo, in Queer come in Ho visto la Tv brillare, è impossibilitato a entrare realmente in connessione con l’altro, ed è inconciliabilmente separato dallo spirito. Del resto, anche in Mulholland Drive ad aspetto fisico non corrisponde identità univoca: Betty e Rita non sono solo Betty e Rita, ma anche Diane e Camilla, ed entrambe le coppie sono in una relazione lesbica. Il loro aspetto, scrive Barbara Grespi, è “un esterno simbolico che, come un abito, può rivestire anche interni diversi”.

Guadagnino e Schoenbrun ribaltano il significato della scissione tra corpo e identità lynchiana attraverso una prospettiva queer, suggerendo piuttosto che l’“interno” di una persona possa abitare “esterni” diversi e che una sintesi pacifica tra carne e spirito arrivi solo con la piena espressione del sé.