Una giovane madre single si destreggia tra i fornelli quando una telefonata inaspettata le stravolge la giornata: i suoi genitori le annunciano che stanno per farle visita. Nel frattempo, il cibo brucia nella padella, il bambino inizia a piangere. Quelle che per un pubblico occidentale potrebbero apparire come inezie, banali disavventure quotidiane assumono qui tinte tragiche che assorbano qualunque comicità che può fuoriuscire dalla scena. Il bambino, infatti, è stato tenuto nascosto allo Stato e ai genitori, poiché in Iran una donna single non può crescere un figlio da sola.

La soluzione al dramma sembra semplice: basterebbe che qualcuno si facesse carico del bambino, giusto fino a domani. Ma i vicini del condominio in cui vive trovano ogni scusa possibile per non prestare aiuto, il padre del bambino, vessato al lavoro, si rifiuta di riconoscerne l'esistenza, la migliore amica della madre non può portarlo in dormitorio e neanche può prenotare una stanza d'hotel in quanto donna single. Questi problemi sarebbero insomma agilmente risolvibili non ci fossero stupide leggi millenarie in vigore.

Attraverso questa serie di inibizioni incomprensibili per pubblico occidentale, La bambina segreta lentamente espone un meccanismo. Non quello di un sistema patriarcale e fondamentalista, ma un'architettura narrativa, un sistema a orologeria che regola l'incontro con la realtà iraniana. Ogni possibile soluzione alla crisi viene sistematicamente frustrata da una nuova inibizione, alimentando un crescendo di tensione in vista di un finale che promette di rilasciare l'ansia accumulata.

Nel tessere questa trama, emergono anche sprazzi di realtà: il costante timore di una sorveglianza invadente, l'inerzia sociale davanti al potere, l’indifferenza verso il destino altrui, la mancata assunzione di responsabilità nei confronti delle grandi prove (la democrazia, la paternità). Questi motivi sono accuratamente disseminati, oltre che nello svolgersi delle peripezie, nell'ambientazione: appartamenti prigione in cui vivere nella propria segretezza le poche soddisfazioni che si hanno, palazzi costantemente sorvegliati prima di tutto dai propri condomini ficcanaso, corridoi in cui sbuca improvvisamente la polizia, dormitori vigilati all'entrata.

Lo spazio diventa un campo minato in cui i personaggi devono muoversi con cautela per non esplodere. Su questo palcoscenico salgono patetici commedianti, pronti a inventare le scuse più stravaganti per giustificare la propria indifferenza nei confronti del prossimo, a bisbigliare furtivamente per non far ascoltare all'altro i propri diabolici piani. Eppure questo campo minato non giunge mai a un'esplosione grottesco-comica, inceppandosi costantemente nella sua meccanica narrativa.

Per contrastare il sistema di potere del proprio Paese, Asgari legifera più strenuamente degli stessi governanti. È il regista-demiurgo a mettere in moto il meccanismo di inezie, a minare il set in cui si muovono gli attori, a disegnare l'apice della parabola drammaturgica nel confronto con il volto logoro del potere. A differenza però del successivo film del regista, Kafka a Teheran, il confronto si presenta non come un momento di liberazione, ma piuttosto come momento preparatorio. Se liberazione deve esserci, essa deve passare attraverso una presa di responsabilità personale.

Anche qui il momento di liberazione coincide con un plot twist che sovverte il meccanismo narrativo. Tuttavia, la narrazione non prosegue oltre, chiudendosi nel compimento dell'atto stesso. L’occultamento delle conseguenze sembra collocare il gesto in una dimensione utopica facendo tramontare tutto d'un tratto una domanda, d'ascendenza neorealista, che sembrava a un certo punto trapelare: e se la rivoluzione stessa fosse, in fondo, un'inezia?