Venezia 76, sala stampa. Dopo la consegna del Leone d’Oro a Todd Phillips per il suo Joker, una voce si leva dal brusio direttamente contro lo schermo che trasmette la premiazione: “Avete fatto vincere il regista di Una notte da leoni. Siete dei pagliacci. Vergognatevi.”

A questo punto ci sarebbe già abbastanza materiale per riscrivere La morte dell’autore secondo Roland Barthes, se non fosse che il tono livoroso dell’affermazione — spropositato: parola dell’autore — tradiva un’urgenza viscerale. Quella di rimarcare il proprio senso di appartenenza, in maniera talmente accanita da trascendere tutto lo scetticismo postmoderno. In fondo, quell’affermazione rivelava l’anima stessa della critica e tutti i suoi più ingombranti limiti allo stesso tempo. Non c’è niente da fare: per quanto il “lettore” vorrà (e potrà) saperne più dell’autore, sentirà sempre il bisogno di cucirgli addosso una divisa.In questa posizione (politica, talvolta pregiudiziale) possiamo riconoscere alcune ragioni del dibattito odierno.

Intrigante, almeno per un po’, ma che rischia di appiattirsi sotto le solite dinamiche di polarizzazione. O meglio, rischia di girare in tondo e mordersi la coda, mettendo in scena l’ennesimo processo alle intenzioni e  alla legittimità di Phillips come regista. Da Starsky & Hutch al Leone d’Oro. Cose da pazzi. “Una barzelletta sterile”, come mi suggerì qualcuno. Ma se il suo Joker campione d’incassi esibiva furbizie e destrezze cinefile che infastidivano altri cinefili, Joker: Folie à Deux merita sicuramente uno sforzo in più, una riflessione più ampia sul mondo dell’intrattenimento. Almeno un tentativo, almeno da parte nostra.

Quante cosa poteva essere il sequel di Joker. Quante cose non è stato e quante altre cose non sarà mai. E quante cose si possono scrivere su questo film. Quanti piani di lettura ci ha proposto questo regista che ha esordito con un documentario punk indipendente e che ha sguazzato nella commedia commerciale troppo a lungo per poterla definire “gavetta”. Quanto è significativo, a dispetto del chiacchiericcio, che abbia assoggettato alla sua visione (e a quella del co-sceneggiatore Scott Silver, altro improbabile “cane sciolto”) uno dei personaggi dei fumetti più amati di tutti i tempi. Una libertà di scrittura e di produzione che oggi vale — anche un po’ inspiegabilmente — 200 milioni. E che la Warner non ha esitato a sborsare.

Se Joker assassinava il cinecomic nell’anno della sua massima e irreplicabile espressione (2019), Joker: Folie à Deux è la sua diretta implosione. Un (auto)sabotaggio, l’uccisione felice (non autocompiaciuta) del successo del suo archetipo. Un film lento, a tratti soffocante, pronto a sigillare tutte le vie d’uscita possibili, che non appena accenna a dispiegarsi trova il modo di accartocciarsi su se stesso. Un fascio di luce sul suo protagonista indiscusso, Joaquin Phoenix, imprigionato (letteralmente) dal seguito che non doveva essere e che alla fine è e non può non essere. Se non a queste condizioni, non negoziabili.

Un po’ come la scelta di reclutare Sylvain Chomet di Les Triplettes de Belleville per firmare la parodia animata dell’incipit, nello stile dei Looney Tunes. Su un medley che rimesta Gershwin, Bacharach e la voce di Nick Cave, il personaggio di Arthur Fleck si contende la scena con la sua ombra, ricordandoci che la folie à deux si consuma principalmente tra l’uomo e il simbolo (vacuo) di cui si è fatto portavoce. Soprattutto suo malgrado. Attorno a questo dissidio interiore, il mondo grigio e dissonante della repressione. La gabbia del sogno americano in cui non resta che immaginare di avere una voce, ancora prima di un palcoscenico.

Il motore armonico è la musica, la miccia è Harleen “Lee” Quinzel (Lady Gaga). In venerazione del Joker, non di Arthur, come la folla che ha travisato il macabro zenit della sua solitudine, del suo disagio. È lei a manipolare lui, nel tentativo di riaccendere la fiaccola di un caos distruttivo. Laddove l’essere umano è sempre più impotente, spezzato, patetico, sbiadito, il simbolo può ancora elevarsi?

Se è vero che Joker è un virus, una malattia più che un personaggio — there’s always a joker, that’s the rule! — Arthur è condannato. E per scrivere questa tragedia, diventata metafora del fandom e del blockbuster, Phillips mescola diversi modelli di cinema in modo da non abbracciarne nessuno. Non per davvero. Il musical è solo un commento che trasforma gli ombrelli neri dei secondini in quelli pastello di Les parapluies de Cherbourg.

Una serie di impalpabili visioni che non hanno il potere di cambiare alcunché. Le canzoni scelte (tutte piuttosto note: da That’s Entertainment, rubata a The Band Wagon di Minnelli, a To Love Somebody dei Bee Gees) non ambiscono mai all’astrazione collettiva del musical vero e proprio. Anche quando si trasforma in legal drama, il tono processuale non determina l’intero film, mentre le svolte psicotiche — solo sognate, come l’amore — si esauriscono in anti-climax ricorrenti, volutamente faticosi, estenuanti.

Non ci può essere comprensione, per Arthur Fleck. L’autorità, le ingiustizie, le prevaricazioni, gli accanimenti psicofisici e mediatici (qui impersonificati da Brendan Gleeson e Steve Coogan) non solo non si possono vincere, ma nemmeno combattere. Non se non ti adegui. Non se decidi di calare la maschera. Non se non puoi (o non vuoi più) dare al pubblico quello che vuole. Puoi sognare lo spettacolo, ma ne farai parte soltanto per il tempo in cui sarai disposto a recitare, in un modo o nell’altro.

Perché il sogno di Arthur è liberatorio, non libertario. La sua risata è sempre stata angosciosa, non ironica. E per quanto possa appropriarsene la folla, il suo dramma resta individuale. Il Joker può vivere — e sempre vivrà: nuovi personaggi indosseranno il suo trucco e il suo sorriso minaccioso, nuove storie verranno scritte, nuovi film verranno girati su di lui. Ma l’uomo no, Arthur deve morire. La sentenza è già scritta e non c’è bisogno che venga pronunciata.

E allora si fa largo questo sospetto, come un tarlo sempre più insistente: c’è il rischio che Todd Phillips abbia realizzato un film importante. Una grande opera nichilista. Un sequel suicida che deve demolire tutte le strutture più rassicuranti e canoniche per comunicare ciò che vuole. Disperato, più che ostico, alienante ancor più che sadico. Un gesto drastico, finale, profondo. Che sia un flop o no, a questo punto è irrilevante (almeno per noi). Perché c’è ancora tanto, troppo da dire su Joker: Folie à Deux, che riesce a essere inafferrabile restando immobile. Dove tutto accade per niente, dove niente accade davvero. Dove la speranza si esaurisce con la fantasia, tra tutte le trappole la più sublime.

Sullo scorrere dei titoli di coda, True Love Will Find You in the End. Il brano “più noto” di Daniel Johnston, l’araldo di tutti gli outsider. Phoenix lo intona con voce spezzata, accompagnato dalla sola chitarra, proprio come l’originale. Questo non era il Joker che stavi aspettando, il film che volevi. Forse ci eravamo sbagliati dall’inizio. Non era vero amore, in fondo. Non essere triste: ci sarà un altro Joker, un altro film, un altro regista e true love will find you, in the end. But how can it recognize you, if you don't step out into the light, the light?

E se alla fine scoprissimo che nella luce ci siamo già?
In tal caso, vale la pena sorridere.