Siamo a Mumbai, metropoli attraversata dalle piogge monsoniche e immersa in un buio infinitamente profondo e dolce. Nello sferragliare di cantieri e mezzi di trasporto infaticabili, l’accenno di un’alba soffusa di azzurro inizia ad avvolgere le sue anime, ancora sospese tra sogni e realtà. Le luci intorno, anziché piangere insieme al cielo, sembrano scintillare splendenti come corpi celesti. Le persone, invece, abbandonato il sollievo concesso dalla notte, tornano alle proprie sofferenze e speranze, come se avvertissero la strana sensazione di essere milioni di fili invisibili tenuti strettamente legati al cuore della città.

Nel mondo di All We Imagine as Light, in bilico tra la tradizione e la modernizzazione, in questo gruppo di personaggi in cerca di un’identità individuale e collettiva, abbiamo l’opportunità di conoscere dapprima un uomo. Stanco di vivere nell’incertezza, ha paura a chiamarla “casa sua”, ha paura di doverla lasciare dopo ventitré anni. Ne segue un altro, giunto in città dopo una lite con il padre. Poi una donna che, portando avanti una gravidanza di nascosto, ci descrive un’esperienza lavorativa maturata alle dipendenze di una famiglia agiata, ricordando specialmente il buon cibo. E mentre il presentimento di trovarci di fronte a un pregevole trattato di sociologia cresce con l’evolversi delle testimonianze, ecco avvenire la magia! Incontriamo finalmente la protagonista, l’infermiera Prabha.

Fragile, taciturna, con un volto pensoso, Prabha fa del suo meglio per sopravvivere, senza lamentarsi dei rivolgimenti subiti contro la sua volontà né rinfacciare i sacrifici compiuti nel corso del tempo. Eppure, nei suoi occhi fin troppo segnati per concedersi il lusso di essere felici o assecondare fantasie e desideri, nel monotono incedere del treno, nella disinvoltura con cui la società si attiva affinché umili e ultimi non possano mai risorgere, si intravede una dimensione diversa. Prabha non lo sa, poiché è una signora pragmatica che non ha tempo né energie per i nostri voli pindarici, ma la sua figura regala immediatamente un momento di grande cinema (pur non frequentando le sale lei stessa, nonostante i numerosi inviti delle colleghe di reparto, e pur presagendo di dover coprire la quota d’affitto della sua coinquilina, la giovane e vivace Anu).

Ora, da una parte, seppur misurandosi con il cinema di finzione per la prima volta, non si può non riconoscere il coraggio della sua autrice, che con un’ostinata delicatezza inserisce il meraviglioso nel banale, l’irreale nel reale, senza stravolgere l’affascinante connubio tra vena lirica e politica. Dall’altra, è assolutamente plausibile immaginarsi Prabha non a bordo del solito treno, ma di una giostra, che con il suo movimento e la sua musica riveste di un ulteriore e misterioso significato la bellezza e i segreti appartenenti alla sua esistenza.

Venendo al nocciolo della questione, All We Imagine as Light, secondo film della regista Payal Kapadia – già familiare al pubblico di Cannes grazie al documentario del 2021 A Night of Knowing Nothing – è una delle migliori pellicole dell’anno. Nonché una delle più originali degli ultimi anni, premiata meritatamente con il Grand Prix Speciale all’ultimo Festival.

Nonostante la presenza di un fuorviante sottotitolo (Amore a Mumbai), All We Imagine as Light è una storia universale che mette al centro della sua indagine in egual maniera il desiderio e la solitudine, attraverso la parabola di tre donne che, messe da parte le relative differenze, stringono un’alleanza che va al di là della parola “amicizia”.

Prabha (Kani Kusruti) è capoinfermiera in un sovraffollato ospedale. La sua routine consiste nel convincere invano i pazienti ad assumere le medicine prescritte, nell’istruire tirocinanti e aspiranti ostetriche troppo precoci per risultare abituate alla vista di una placenta e nell’accudire, una volta rincasata, Anu, collega, oltre che coinquilina. Un giorno, un postino consegna loro un pacco proveniente dalla Germania, il paese in cui, riprendendo il flusso delle sue reminiscenze, lavora il marito, uomo pressoché sconosciuto e opprimente manifestazione di un matrimonio combinato. È una pentola a pressione, un oggetto comune e insieme straordinario.

All’innegabile utilità, difatti, si affianca una serie di domande riemerse da un trauma a stento digerito. Come si chiede Peter Bradshaw del Guardian, è un regalo con il quale il consorte intende rialimentare il loro legame? Oppure, nella peggiore ipotesi – o, in fin dei conti, nella migliore, sposando un punto di vista lontano dall’ottusità di determinati costumi – è il punto con il quale comunicare la chiusura di un’unione sottoscritta per convenienza?

Involontariamente, rappresentando il simbolo di un’emancipazione mai ritenuta possibile, parlare davvero a voce alta e di protestare in difesa di diritti indiscutibili e inviolabili – in tal senso, si consideri il supporto offerto alla più anziana Parvaty. A pochissimi metri di distanza, mentre Prabha abbraccia la pentola in un frangente di lancinante tenerezza, scoraggiata dalla solitudine, da un temporale interminabile e dall’impossibilità di aprirsi al collega veterinario del quale è invaghita, Anu (Divya Prabha) è tutt’altro che sola. Tuttavia, si ritrova alla ricerca di un luogo appartato in cui poter far sesso con il fidanzato, il musulmano Shiaz (Hridhu Haroon). Più spericolata rispetto alla sorella maggiore in pectore Prabha arriverà, in un episodio tragicomico, a varcare il quartiere del ragazzo avvolta da un burka, camuffata da capo a piedi per non destare sospetti, inducendola a confessargli per messaggio “Mi sembra di essere in un film di spionaggio”.

Non solo, Anu sarà anche la prima, noncurante dei pettegolezzi diffusi dalle colleghe e dei rimproveri di Prabha, a offrire con apparente leggerezza contraccettivi a una donna in attesa, incapace di pronunciare la parola “aborto”. Infine, troviamo la vedova Parvaty (Chhaya Kadam), che, rischiando di ritrovarsi d’improvviso sfrattata – in una situazione che non poco ricorda la Clara interpretata da Sonia Braga in Aquarius di Kleber Mendonça Filho –, offrirà alle prime due il reale punto di svolta, la luce contenuta nel titolo.

All’epoca, in un capolavoro di Andrej Tarkovskij, una guida, uno scrittore e un professore forzarono un posto di blocco circondato da un tetro seppiato, avventurandosi così in un mondo di colori. Così, in All We Imagine as Light il talento e la visione di Kapadia sorprendono, irradiandosi nella seconda parte di pellicola, ambientata in un locus amoenus: una spiaggia.  Senza anticipare dettagliatamente gli ulteriori sviluppi, tale non-luogo sarà lo scenario ideale dove approfondire alcune tematiche già enunciate nelle precedenti opere della regista, quali il menzionato A Night of Knowing Nothing e il corto Afternoon Clouds – la poesia, oppure il costante dialogo tra presenza e assenza.

Sarebbero numerosissimi i momenti da citare. Basti ricordare l’incontro/scontro tra Prabha e un uomo salvato dalle acque del mare; un piccolo dramma da camera che non sfigurerebbe al fianco degli spiriti evocati dalla filmografia del thailandese Apichatpong Weerasethakul (Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, Cemetery of Splendour).

In conclusione, come dichiarato da Isabelle Huppert durante la cerimonia di chiusura dell’ultima Mostra di Venezia, il cinema è in grande forma, è ancora lo strumento più congeniale per sviscerare la complessità dell’essere umano. Payal Kapadia è certamente un’autrice da tenere d’occhio per una ragione in particolare. A differenza di altri suoi illustri colleghi diligentemente impegnati a raggomitolarsi, sa guardare al futuro con fiducia. Non per nulla, sarà Prabha, nel finale, a dire al suo sorpreso interlocutore: “Accomodati!”