Quando nel 2024 ci si ritrova in sala a essere ancora davanti a un western, c’è sempre da chiedersi cosa abbia spinto il regista a interrogare un genere la cui età dell’oro è finita da tempo e il cui epilogo qualcuno ha arbitrariamente stabilito col crepuscolare The Unforgiven di Clint Eastwood, lontano nel tempo già oltre trent’anni.

La stessa incuriosita domanda ce la siamo posta recentemente in occasione dell’uscita dei primi due capitoli di Horizon: An American Saga di Kevin Costner – il primo visto anche in sala, il secondo presentato solo al Festival di Venezia, per ora. Tuttavia, se l’epopea di Costner si adagia sul genere in maniera compiaciuta e non sembra aggiungere nulla a ciò che è già stato mostrato, diverso è il caso di The Dead Don’t Hurt di Viggo Mortensen, al suo secondo lavoro dietro alla macchina da presa dopo Falling (2020).

Vivienne (una, come sempre, intensa Vicky Grieps) è figlia di immigrati francesi e cresce con un carattere orgoglioso e combattivo in un West tradizionalmente dominato da violenza e maschilismo tossico. Tra gli uomini che incontra c’è, però, Holger Olsen (Viggo Mortensen), immigrato danese, che si distingue subito per una sensibilità insolita. I due si scelgono e si stabiliscono in un luogo appartato, in una comunità dove compaiono tanti noti personaggi del western: il sindaco autorevole ma avido, l’imprenditore senza scrupoli e il rampollo violento e lussurioso. Intorno, nel frattempo, la Storia, nelle vesti della Guerra Civile, è pronta a entrare nella vita dei personaggi.

Sin qui sembrerebbe che tutto non si discosti dal tipico spartito; tuttavia, questo scenario ricorrente rimane sullo sfondo, mentre il nucleo pulsante del film è la storia di Vivienne e Holger, lo smussarsi dei loro caratteri, gli sforzi per costruirsi una casa tranquilla e un futuro sereno, le scelte sbagliate che conducono a traumi irrisolvibili e, infine, il dover fare i conti con degli errori non più rimarginabili, svuotati di ogni tipo di epicità, e infine teneramente avvolti da una sconsolata umanità.

Mortensen decostruisce la storia – non solo tematicamente, ma anche strutturalmente attraverso una gestione interessante e antilineare della temporalità – in molteplici direzioni, mostrando versanti del genere assai meno frequentati e, quindi, ancora esplorabili. Come detto, il nucleo vivo del racconto non sono le faide tra gruppi locali, né gli scontri con i pellerossa, né la solita storia di vendetta che è sì presente, ma rimane appunto un corollario. Il film parla della relazione tra un uomo e una donna, due personaggi mai idealizzati, ma mostrati nelle loro debolezze. Ed è questo che li rende famigliari allo spettatore.

Proprio a livello dei personaggi avvengono le scelte creative più interessanti. Innanzitutto, a partire dalla volontà di porre una donna al centro di un western – fatto atipico e infatti rivendicato dal regista che, allo stesso tempo, non cade nella trappola di attribuire anacronisticamente a Vivienne volontà e dichiarazioni femministe. E poi nella decostruzione del personaggio maschile principale che dimostra qualità e attitudini ignote all’eroe duro, cinico e inscalfibile del western. Holger, al contrario, è sensibile, comprensivo e soprattutto commette, per fragilità o indecisione, delle scelte sbagliate. Non è, appunto, un eroe, ma un uomo.

Infine, non mancano dei momenti crudi o violenti, ma il ritmo narrativo adottato da Mortensen non è quello incalzante e frenetico che soggiace alla maggior parte delle narrazioni affini. Il film procede lentamente e spesso, proprio quando ci sono sulla scena i due protagonisti, indugia sui loro silenzi, gli sguardi parlanti o i piccoli gesti che stanno compiendo. Tutte strategie volte a restituire concretezza e umanità a dei personaggi che sono mortali come lo spettatore, e non dei corpi saettanti sullo schermo.

Unitamente a queste cose ci sono una fotografia, condotta da Marcel Zyskind, di grande impatto che si muove tra la bellezza di paesaggi e campi larghi, e i dettagli dei volti, e in generale una messa in scena di alto livello che riesce a coinvolgere l’occhio del pubblico.

Viggo Mortensen, a sessantacinque anni ma alla sola seconda prova da regista, dimostra una maturità artistica non comune, capace di muoversi tra tradizione e modernità all’interno di uno dei generi più codificati e, ormai, meno frequentati del cinema. La sua visione, all’interno di un contesto western, può ancora avere molto da dire e The Dead Don’t Hurt è un’opera che attesta una coerenza artistica, per idee e loro realizzazione, di sicura maestria, in un momento storico in cui sovrabbondano i prodotti imprecisi, poco meditati e furiosamente dati in pasto al pubblico.