Dorian Gray avrebbe stretto il suo patto col diavolo se gli fosse toccato passare una settimana sì e una no nei panni del mostro nel Ritratto? Probabilmente sì, se fosse vissuto ai tempi di TikTok. The Substance fa di tutto per sembrare ambientato negli anni '80, e non a caso: l'"epoca delle superfici" e dell'aerobica di Jane Fonda è la cornice perfetta per un film che di immagine, standard estetici e beautification parla dalla prima all'ultima inquadratura.

Ma nella regia aggressiva di Coralie Fargeat, dove ogni stacco è un pugno in faccia e il sound design schiaffeggia il pubblico come un maglio, si legge il riferimento a un'altra epoca: questa, ovviamente. E in particolare il bombardamento d'immagini dei social di ultima generazione, scandito dal "colpo su colpo" dello scroll, dalle inquadrature ravvicinatissime di parti anatomiche magnificate e levigate dalla correzione digitale, al cospetto delle quali il nostro corpo fallibile e deteriore non può che chiudersi a piangere in una stanza buia come un mostro nelle segrete di un castello glitterato.

Se c'è un film recente che ha azzeccato in pieno l'aggiornamento del body horror al contemporaneo (ci spiace per Titane) è questo. Vedersi invecchiare mentre il mondo si mostra perfetto, sentirselo ricordare dalla nostra stessa immagine congelata per sempre giovane in una foto profilo, sperimentare la scissione identitaria tra la facciata di bellezza ed equilibrio che proiettiamo e la sofferenza "dismorfica" che ne è l'ombra eternamente rimossa, ineliminabile e consustanziale.

Tutto questo si agita nelle immagini brulicanti di The Substance ed è ciò che ne fa un film così universale, così al di là del femminismo che pure evidentemente ne costituisce il perno. Ma proprio sul femminile Fargeat lavora in modo superbo, proponendo un racconto completamente interiore (non per niente tutta la prima parte è praticamente muta e quasi senza altri personaggi oltre a Elizabeth/Demi Moore), dove la casa, la doccia, lo specchio si fanno campo di battaglia di un terrificante scisma tra coazione ad apparire e rigurgiti identitari.

Ci sono almeno un paio di rimandi iconografici - intelligentissimi - in questa lotta contro sé stesse, dove il gaze maschile è chiamato in causa come conferma/referente esterno di un dolore che si autoalimenta come un fuoco esistenziale. C'è Biancaneve, storia di una bella ragazza e di una regina decaduta (poi orribile vecchia) messe una contro l'altra dal giudizio estetico di uno specchio. E c'è Shining di Kubrick, col suo campo/controcampo perturbante che trasformava la ragazza baciata da Jack Nicholson in una strega purulenta e cadaverica: di nuovo lo sguardo maschile a scindere ciò che invece Fargeat ricolloca imperiosamente nello stesso seno, nello stesso vissuto lacerante.

Si dirà che nell'ultima parte esagera, che doveva fermarsi prima, che alla fine perde la misura. Ma come può perdere la misura un film che inizia con una sequenza come quella della stella sulla walk of fame, piccolo capolavoro che avrebbe reso fiero l'Hitchcock di The Ring (1927) per come racconta intere vicende tramite un solo oggetto e un'unica inquadratura?

E infatti non c'è errore: dopo aver mostrato l'annullamento di sé che comporta la partecipazione al mondo mediatizzato e superficiale di oggi (compresa la rimozione di ciò che vi è di più inaccettabile in questo mondo: il Brutto josephmerrickiano, la Carne martoriata, abortita e ingerita dietro la Carne esposta) Fargeat giganteggia in un finale che è cult già prima di chiudersi: una doccia di sangue alla Peter Jackson dove tutto il Rimosso di quest'epoca viene risputato in faccia agli spettatori con goliardica soddisfazione. E noi, coperti di sangue da capo a piedi, applaudiamo.