Di fatto, non si tratta tanto di un vagabondaggio quanto di una vera e propria ricerca, che struttura saldamente la storia in tre parti: la ricerca di un’identità (un uomo mezzo matto e muto riappare nel deserto texano: chi è? da dove viene?); la ricerca di un figlio (finalmente salvato dal fratello Walt, Travis ritrova il figlio piccolo, Hunter, e viene riconosciuto da lui come il suo vero padre); e la ricerca di una moglie (l’uomo e il bambino partono alla ricerca di Jane, moglie e madre).
Paris, Texas è quindi la storia di una famiglia che si ricostruisce; questa ricostruzione avviene attraverso le immagini: Hunter riconosce davvero suo padre quando vede un Super 8 di quando la famiglia era unita e, cosa ancora più eccezionale nell’opera di Wenders, attraverso le parole: Travis non perde tempo a cercare Jane, la trova subito (in un peep show di Houston); a quel punto inizia la più formidabile ‘spiegazione’ della coppia, sulla quale non abbiamo ancora finito di interpretare […].
Paris, Texas inizia negli ampi spazi aperti attraversati da carrellate e panoramiche, e termina in una cabina di un peep show filmata con inquadrature fisse e campi-controcampi. L’esplosione finale delle parole è pari alle emozioni che Travis aveva represso durante le prime due parti del film. […]
Come è ormai evidente, Paris, Texas è estremamente denso e poetico, e questo è ulteriormente sottolineato dal lavoro sulle location (il Texas, la casa di Walt sulle colline sopra Los Angeles, Houston e i suoi edifici in vetro, le cabine del peep show) e dalla superba fotografia di Robby Müller, che passa abilmente dalla luce cruda del Texas ai colori accesi del peep show.
Olivier Curchod, “Positif”, n. 281-282, luglio-agosto 1984


Fino a oggi il motore delle narrazioni di Wenders è stato sì il vagabondaggio, ma soprattutto l’incontro. Il vagabondaggio torna anche in Paris, Texas, benché con uno scopo forse chimerico (annunciato sin dal titolo), e imperniato su una serie di ricongiungimenti. Si tratta di una novità e, dal punto di vista dei protagonisti, a partire dal loro regista, di una difficoltà maggiore. Il dialogo che, ad esempio, poteva instaurarsi per tentativi, trasporti improvvisi, tacite complicità fra un giornalista allo sbando e una bambina (Alice nelle città), fra due uomini che costeggiano una frontiera (Nel corso del tempo), fra un malato terminale e il gangster che lo travia (L’amico americano), fra un detective e gli sconosciuti con cui la sua indagine lo porta a confrontarsi (Hammett. Indagine a Chinatown); quel dialogo era necessariamente più libero, più facile da avviare che non quello di Paris, Texas, nel quale converge un intero romanzo familiare e che, come a volerci illustrare la fatica che comporta, presenta per una buona mezz’ora un protagonista silenzioso.
Nonostante questo fardello di vita, di conflitti, di sofferenze anteriori e comuni, così pesante da portare, i personaggi di Paris, Texas si ritrovano, imparano a riconoscersi. A forza di premure, di ostinazione, di sfuriate affettuose Walt, il fratello, riesce a vincere il mutismo in cui si è rifugiato Travis. E Travis, a sua volta, vince l’ostilità che gli dimostra il figlio Hunter, vince l’amore che questi porta ai genitori adottivi (il tutto non senza dolore, e non senza il desolato soccorso dei detti genitori). Travis e Hunter, infine, partono insieme alla ricerca di Jane, e per ritrovarla dovranno sconfiggere l’impenetrabilità di una grande città, quella di uno specchio semiriflettente e i sedimenti di un tempo passato.
Va da sé che questi riavvicinamenti successivi sono sconvolgenti: nel giro di un quarto d’ora, lo spettatore conquistato da Paris, Texas resta inchiodato su un crinale dove l’ampiezza del respiro non impedisce il groppo alla gola, l’affiorare delle lacrime come una pulsazione sincronizzata con il ritmo lento del film. […]
Sin dalle prime inquadrature (Travis nel deserto), si afferma una cattura dello spazio che non è mai stata, a mio avviso, tanto armoniosa ed espressiva, neppure in Nel corso del tempo. E a proposito di tempo, una pienezza della durata, sottolineata dalla chitarra di Ry Cooder, fa di Paris, Texas il film più calmo, più sobrio che Wenders abbia mai diretto.
Emmanuel Carrère, “Positif”, n. 283, settembre 1984, trad. in Tra cinema e letteratura, a cura di Carlo Chatrian e Daniela Persico, Edizioni Bietti, Milano 2015


Dopo quasi quarant’anni, il capolavoro euro-americano di Wim Wenders è più misterioso e ipnotico che mai: uno sguardo dall’esterno sugli Stati Uniti, con la chitarra dolente e tremolante di Ry Cooder che è diventata un classico istantaneo al pari del tema di Ennio Morricone per Il buono, il brutto e il cattivo. […]
Le geografie desolate del Texas e dei sobborghi poco eleganti di Los Angeles sono colte in modo superbo, e Wenders e Shepard assecondano l’amore per i motel, con le loro strazianti insegne al neon; questo film ha fatto molto per rendere i motel il simbolo delle strade e del cuore dell’America, e li ha salvati dall’immagine negativa di Psycho
e del Bates Motel. […] Infine, ci sono le incredibili scene finali nel peep show, metafora della reciproca alienazione di Travis e Jane. Nastassja Kinski ha il compito estremamente difficile di mostrarci la storia di Jane in due sole scene. Mentre Travis inizia a raccontarle la loro storia (senza rivelare chi è), Kinski mostra come Jane sia dapprima sconcertata, poi stupita, poi commossa da quella che ancora pensa sia la fortuita somiglianza della storia con la sua, e infine devastata di fronte alla verità. La squallida solitudine e la bizzarra alienazione di queste sequenze, che arrivano dopo la più rassicurante storia di benessere domestico e del formarsi del legame padre-figlio, danno al film un impatto duraturo. È una storia angosciosa e triste, il cui significato scompare nel vasto orizzonte come su un’autostrada che si perde nel deserto.
Peter Bradshaw, “The Guardian”, 27 luglio 2022


Si può fare un film perché affascinato dal nome di una cittadina texana? Wim Wenders […] lo ha fatto, partendo proprio dalla scoperta che in Texas esiste una cittadina che si chiama Paris (e che nel film non si vede mai). […]
Come spesso in Wenders il viaggio geografico è insieme viaggio interiore, alla scoperta di sé e dei propri sentimenti, affrontati con una semplicità capace di riscattare un’emotività tanto diretta da sembrare anche banale (come a volte nei testi di Sam Shepard che co-sceneggia) ma che sa toccare temi centrali come la solitudine, il senso di abbandono, il perdono di sé, la redenzione. Grazie anche alla prova perfetta di Harry Dean Stanton e della ventiduenne Nastassja Kinski.
Paolo Mereghetti, “Io Donna”, 2 novembre 2024