"And I'm in so deep / You know I'm such a fool for you / You got me wrapped around your finger / Do you have to let it linger? / Do you have to, do you have to, do you have to let it linger?"

Linger, The Cranberries.

Anora è una fiaba, ambientata in un universo in cui i soldi fanno la felicità. Inizia più o meno così. C’erano una volta due sorelle. Continuavano a vivere sotto lo stesso tetto. Costrette a incontrarsi ogni giorno, sebbene ormai estranee, si limitavano a tollerarsi a vicenda, unicamente legate da un vincolo che non hanno potuto scegliere né valutare. Una mattina, mentre la maggiore stava dormendo, reduce da una serata lavorativa particolarmente sfiancante, la seconda irruppe nella sua stanza, svegliandola bruscamente e riportandola alla tetraggine della periferia. Senza tanti preamboli, le chiese: “Ti sei ricordata di prendere il latte?” L’altra, rigirandosi tra le coperte, rispose, già abituata alla mancanza di delicatezza dei propri clienti: “Hai visto il latte in frigo?” La replica: “No”. La controreplica, gli occhi ancora socchiusi: “Allora, non ho preso il latte”.

Ora, dopo un ultimo, sarcastico ringraziamento dall’altra parte della barricata, poteva cominciare un’altra settimana tediosa all’insegna di tensioni e grida represse a stento. Finché la solita routine, fatta di violente discussioni, non venne spezzata da una nuova notifica. Un messaggio, semplice, senza sfumature: “Sei libera?”. La sigaretta in mano, schiacciata forse dalla mancanza di sonno, forse dal sordo oblio che caratterizzava il mondo fino allora conosciuto, Ani (all’anagrafe Anora) si chiese se tutto fosse frutto della sua immaginazione. Quell’Ivan poteva quindi rappresentare il suo punto di svolta?

È la miccia che innesca un autentico viaggio sulle montagne russe – il gioco di parole non è casuale. Compagni di scompartimento al Festival di Cannes dove l’uno ha ottenuto il Grand Prix, mentre il secondo la Palma d’oro, rispetto allo splendido All We Imagine as Light di Payal Kapadia, Anora non insegna a credere nelle illusioni. Siamo pur sempre di fronte a una pellicola di Sean Baker, uno degli esponenti di spicco del cinema indie. Difatti, non è la prima volta che ad essere messo in scena, riportandoci alla realtà, è niente meno che il tramonto del cosiddetto sogno americano.

Sin-Dee Rella, una delle due sex workers transgender protagoniste del breve, ma fulminante Tangerine (2015), ritorna alla libertà dopo 28 giorni di reclusione. Salvo essere maldestramente informata dalla sua migliore amica Alexandra del tradimento del fidanzato Chester. Tale rivelazione provocherà, il giorno della Vigilia di Natale, un’avventura suburbana a là Fuori orario di Martin Scorsese (1985).

Qualche anno più tardi, in Un sogno chiamato Florida (2017), il magico regno di Disney World sarà l’intoccabile fortezza nella quale proverà a rifugiarsi la piccola Mooney, nel disperato tentativo di ritardare l’addio all’infanzia prima di essere strappata alla madre da un manipolo di poliziotti e assistenti sociali. Eppure, Anora, pur non sembrando in prima istanza un’eccezione nella galleria di dolci disgraziati di Baker, ha almeno quattro marce in più. Forse cinque, forse sei, prendendo in prestito la battuta con la quale l’impulsivo e sconsiderato Vanya (Mark Eydelshteyn), parlando di carati, finirà per convincere Ani (Mikey Madison, qui in un’interpretazione indimenticabile) a convolare a nozze esattamente con lui in quel di Las Vegas.

Erroneamente considerata una parente della più fortunata e iconica Vivian di Pretty Woman (1990), Ani, portavoce di una più vasta complessità, si rivela semmai la moderna sorella di Cabiria, figura resa immortale dalla coppia Masina-Fellini grazie a Le notti di Cabiria (1957). Capolavoro citato in diverse interviste dallo stesso Baker, artista incline ad approfondire la conoscenza dei recessi della nostra società, senza mai prestarsi, tanto impudico quanto sincero, al voyeurismo, fin dai tempi di Take Out (2004, co-diretto insieme a Shih-Ching Tsou). Talmente sincero da ricorrere altresì, in questo caso, all’apporto offerto dalla sex worker canadese Andrea Werhun, autrice del memoir Modern Whore (2020).

Ad accompagnare Ani, in una epopea alla quale s’augura di rimanere impressa nel cuore e nella mente degli spettatori, troviamo una scrittura esuberante in grado di assecondare i diversi rivolgimenti narrativi assunti dalla vicenda, tanto incalzante da non dare mai l’impressione di soffrire la durata, comunque notevole, di 139 minuti. Sì, sfrontata, ma pure consapevole di poter servire un personaggio di rara potenza, la cui dimensione sfaccettata deriva da una nobilissima tradizione, che prende le mosse da John Cassavetes fino ad arrivare ai più recenti fratelli Safdie.

Non per nulla, quando nella sequenza d’apertura incontriamo Ani, orgogliosa di esibire l’unico strumento attraverso cui esercitare la propria egemonia sugli avventori dell’Headquarter, udiamo i versi di una canzone dei Take That: “Today this could be the greatest day of our lives”. Come se il suo corpo di danzatrice erotica intuisse sottopelle l’importanza di un altro elemento per sopravvivere a un mondo in cui le uniche certezze assumono le sembianze dell’ingiustizia e della disuguaglianza. Dove è impossibile concepire l’esistenza dell’amore.

Ebbene, serve una buona dose di fortuna, cieca e temporanea. Oggi tocca ad Ani, domani potrebbe essere il turno di Lulu, o di Diamond. Dall’altra parte, a sfilare lungo i marciapiedi ghiacciati di un’America formato Brighton Beach, troviamo invece un carosello di comprimari irresistibili. Per esempio, il già menzionato Ivan. Eydelshteyn, trascinato dalla manifesta chimica con Madison, è davvero abile, prima, a conferirgli l’aura del figlio allampanato e spendaccione, apparentemente desideroso di liberarsi dalla gabbia dorata creata dai genitori; successivamente, a riversare nella stessa persona l’indifferenza dell’erede circondato di privilegi.

Ancora, senza tralasciare gli spassosi tirapiedi Toros (Karren Karagulian, collaboratore abituale di Baker da Starlet) e Garnik (Vache Tovmasyan), merita una doverosa parentesi il gopnik Igor, incarnato con grazia e misura da Jurij Borisov, volto inconfondibile già ammirato in Scompartimento n. 6 (2021) del finlandese Juho Kuosmanen. Tra gli sgangherati e insensibili gangster assoldati dai genitori di Ivan al fine di ottenere l’annullamento del matrimonio tra Ani e Ivan, Igor è un pesce fuor d’acqua, risultando un insieme di contraddizioni. Condizionato da un aspetto minaccioso, eppure goffo nei modi.

Di pochissime parole, eppure, a sorpresa, dotato di una profondità di pensiero. Sicuramente un picchiatore, eppure le mani le utilizzerà per offrire ad Ani una sciarpa rossa per ripararsi dal vento gelido, o una coperta durante un volo piuttosto lungo. La sua comica uscita “Andrà tutto bene”, a ben riflettere, non si discosta tanto dal “Troveremo una soluzione” rivolto alla superstar Anna Scott dal libraio Thacker in un cult della commedia romantica, Notting Hill (1999).

Incaricato di dinamitare la nostra visione del mondo, Igor è la maschera rude, eppure mansueta, in grado di proporci un’alternativa rivoluzionaria. La pura, disinteressata gentilezza, partecipe del dolore altrui. E Baker, già scaltro a gestire un flusso zeppo di avvenimenti rocamboleschi, porta a termine il colpo di genio, che gli è valso la Palma d’oro, negli ultimissimi minuti: una conclusione logica, eppure straziante. L’abbraccio finale tra Ani e Igor contiene una serie di verità. Il mondo sarà ancora un luogo in cui non esiste futuro, disseminato di perdenti ridotti all’anonimato. La redenzione sarà ancora una chimera possibile soltanto nelle preghiere. E le lacrime, antidoto alla probabile perdita dell’anima. Piangere, infatti, sarà una liberazione. E la neve cadrà lieve non solo sui tergicristalli dell’auto della nonna, ma su tutto l’universo, sia sui vivi sia sui morti.

Ani e Igor non avranno letto James Joyce come le più acculturate Martha e Ingrid, protagoniste del vincitore del Leone d’oro, La stanza accanto di Pedro Almodóvar. Tuttavia, è come se, abbracciandosi, ne avessero interiorizzato la morale, condividendo da lontano con il dublinese Gabriel Conroy la stessa accettazione della sconfitta, la caduta di ogni idealizzazione, sogno americano compreso.