Justin Kemp è un giovane giornalista, lavora per una testata di life style ed è in attesa di un figlio. Vorrebbe stare a casa insieme alla moglie, che sta per partorire, ma viene chiamato a fare il giurato in un processo per omicidio: una donna è stata trovata morta dentro al letto di un fiume, dopo che la sera prima, dentro a un bar, aveva violentemente litigato col compagno, ora accusato di averla uccisa. Quella notte anche Justin si trovava nello stesso locale: tornando a casa credeva di aver urtato un cervo con la macchina ma ora teme di aver investito la vittima.
Clint Eastwood apre il suo Giurato numero 2 con un disegno della Giustizia - la dea bendata che, con la bilancia in una mano, soppesa il bene e il male e, con la spada nell’altra, protegge l’ordine - portandoci direttamente dentro l’aula di un tribunale, lì dove si incroceranno i destini dei protagonisti: un giovane e sfuggente giurato dal passato ingombrante e un’avvocatessa di mezza età che fa i conti con il tempo che passa e le ultime chance per far carriera. Intorno a loro il fantasma di una donna uccisa, un imputato che si proclama innocente, una moglie e futura madre segnata da un grave lutto e altri undici giurati che non riescono a trovare unanimità di giudizio.
Eastwood costruisce un thriller giudiziario perfetto, dal ritmo teso e incalzante, e segue i suoi personaggi con una regia essenziale, misurata e lucida, che non cede a nessuna retorica e a nessun sentimentalismo. Per ragionare a fondo sul concetto di giustizia, si prende però il tempo di indugiare sulle smagliature delle vicende umane, sulle piccole e grandi ferite di anime e corpi. I segreti, le colpe, i sogni di successo o di riscatto trapelano non solo dal racconto dei fatti (a volte resi attraverso flashback, a volte per ellissi) ma anche attraverso i primi piani su occhi impauriti che fuggono dall’ineluttabile, su rughe scavate dalla stanchezza e dalla coscienza, su tatuaggi indelebili che spuntano dai colletti.
Da un lato abbiamo Justin (un tormentato e imperscrutabile Nicholas Hoult) - giovane giurato con un passato segnato da problemi di dipendenza e lutti familiari - che in nome della giustizia vorrebbe scagionare l’imputato ma, al tempo stesso, vorrebbe anche evitare che la colpa ricada su di lui. Dall’altro abbiamo l’avvocatessa Faith Killebrew (una determinata e cinica Toni Colette), che in veste di pubblica accusa spera di vincere il processo per poter avanzare nella sua carriera di procuratore distrettuale.
All’interno di questa storia i due protagonisti seguono un arco di trasformazione diametralmente opposto. Justin cerca inizialmente di convincere gli altri undici giurati dell’innocenza dell’imputato (con varie sequenze che costituiscono un lungo e grande omaggio a La parola ai giurati di Sydney Lumet) ma poi capitola, in modo pavido ed egoista, per tutelare se stesso e la propria famiglia. Faith, invece, partendo dalla consapevolezza che vincere il processo le porterebbe un avanzamento di carriera, punta sulle facili apparenze, trascura i dettagli del caso, non considera il ragionevole dubbio, cavalca l’ipotetica violenza domestica, fino ad accorgersi di aver lentamente aggirato gli ideali per cui ha iniziato a fare quel lavoro.
“La giustizia è verità in azione” fa dire Eastwood a Faith mentre parla col collega della difesa. E l’azione costituirà proprio la differenza, il turning point della presa di coscienza di Justin e di Faith. Là dove il giovane padre si asterrà dall’autodenuncia, rinunciando a portare a completo compimento il corso della giustizia, la donna in carriera deciderà di agire secondo coscienza, mettendo a repentaglio il suo percorso lavorativo.
Se consideriamo Giurato numero 2 come l’addio del novantaquattrenne Eastwood al cinema, possiamo leggere questo film come l’ultima tessera del mosaico che va a completare la sua opera. Quella verità in azione - quella giustizia che prima ancora che nei tribunali soppesa scelte e azioni dentro di noi - è un elemento che collega tanti suoi film. Nella sua filmografia da regista i temi morali ed etici sono di fatto sempre attraversati da questa verità: pensiamo per esempio a Un mondo perfetto, a Mystic River, a Gran Torino, ad American Sniper, a Sully o ai più recenti Il corriere - The Mule e Richard Jewell .
Ma se davvero siamo di fronte a un saluto, viene da chiedersi dove diavolo si è nascosto Clint Eastwood dentro questo film. Forse in un personaggio secondario ma riuscitissimo di nome Harold (interpretato dal bravo J. K. Simmons, che ricordiamo come odioso maestro di Whiplash), nel ruolo di un giurato che è anche un ex poliziotto, un detective.
Harold capisce subito che l’accusa sembra costruita ad arte sul presunto colpevole, senza una seria indagine sul caso (così come succedeva in Fino a prova contraria dello stesso Eastwood). Col suo cappellino di paglia e alla guida di un furgone a fiori indaga sulla scena del delitto e capisce subito che l’imputato non è colpevole. Ma nel momento in cui Harold si avvicina pericolosamente alla verità, Justin fa in modo che si dimetta dal ruolo di giurato.
Ecco, in questa uscita di scena potremmo intravedere in filigrana quella di Eastwood. Harold, come Clint, ha capito in anticipo molte cose, si è avvicinato ad alcune verità e ce le ha indicate, ma ora desidera godersi la meritata pensione. Fuori scena, senza parole, indossa il suo cappello di paglia, sale sul furgone da fioraio e ci lascia in compagnia di una pista da seguire e di qualche buona domanda su cui riflettere.