Do Not Expect Too Much from the End of the World è un’opera strabiliante, un prisma di generi e formati diversi perfettamente ibridati tra loro in un racconto dissacrante e iconoclasta che mette a nudo contraddizioni e ingiustizie della società rumena e non solo. Ciò che colpisce più di tutto del nuovo film di Radu Jude, oltre al suo brillante sarcasmo, è la sua originalità radicale, in perfetta continuità con la filmografia del regista che nel 2021 ha meritatamente trionfato a Berlino con un altro film esplosivo come Sesso sfortunato o follie porno.

Buona parte del film segue le peripezie di Angela (Ilinca Manolache), tuttofare precaria di una multinazionale austriaca. Fin dall’inizio veniamo immersi nella routine di una sua sfiancante giornata in cui a bordo del suo furgone corre da un punto all’altro della città per realizzare una sorta di casting tra dipendenti che hanno subito infortuni sul lavoro. Il vincitore, oltre a ricevere un misero premio in denaro, dovrà raccontare la sua esperienza in un video realizzato dall’azienda.

L’ultima geniale parte del film è dedicata proprio alla lavorazione di questo video. Allo stesso tempo il film è inframezzato da spezzoni di un’altra pellicola, ovvero Angela Merge mai departe del 1982, ambientato invece in una Romania ancora comunista e incentrato sulla figura di una tassista alle prese con i pregiudizi di un paese fortemente maschilista.

Do Not Expect Too Much from the End of the World alterna un bianco e nero sporco, i colori sgargianti di Angela Merge mai departe del 1982 e i freddi primi piani dei reel di Tiktok in cui la protagonista nelle vesti del suo alter ego sboccato e cafone Bobita fa la caricatura dell’influencer. Nonostante l’apparente discontinuità che può creare l’affiancamento di tutti questi formati, la costruzione operata da Jude è ben amalgamata plasmando un mondo davvero reale e autentico, per quanto, come ci viene ricordato nella lunga inquadratura finale, qualunque prodotto audiovisivo è sempre frutto di un artificio.

Radu non realizza una sinfonia urbana, un inno d’amore alla metropoli, ma il suo esatto opposto. Finanche nella forma, nelle lunghe inquadrature in cui vediamo la protagonista affrontare il traffico e la stanchezza, lo spettatore viene sfidato dall’immagine, viene messo alla prova. Il nervosismo diventa tangibile, la stanchezza si trasmette al pubblico.

Non c’è un piacere estetico per l’immagine, ma la sua trasformazione in un organo funzionale, in uno strumento atto al racconto. Così viene messa in scena la quotidianità avvilente di un popolo alla periferia d’Europa, costretto ad orari di lavoro disumani e completamente in balia delle multinazionali. L’aspetto della città è quello di una carrellata di manifesti pubblicitari che spiccano e occupano la scena anche sopra i cimiteri, una scenografia che non prevede la vita se non per il consumo. 

A questo scenario apocalittico fa da contraltare la Romania comunista dalle strade fluide, dai colori sgargianti e dalle persone sorridenti. Ma possiamo davvero fidarci di quelle immagini? Sembra chiedersi Jude con dei lenti slowmotion in cui la camera si fissa su dei dettagli insignificanti sullo sfondo, come nella celebre scena di Blow-up di Antonioni in cui il protagonista inizia ad ingrandire una fotografia all’estremo, cercando una verità che l’immagine non potrà mai possedere.

Jude dunque non affianca al suo film quello del 1982 con fini nostalgici, ma per smascherare la propaganda, per denudare con raffinatezza l’artificiosità propria dell’immagine. Riflessione che non è soltanto estetica, ma anche politica nel momento in cui si racconta come le aziende costruiscono e sfruttano le immagini attraverso la pubblicità o, come si vede nel film, attraverso la più indegna mistificazione della realtà.

In questo spaccato di vita rumena Jude ha anche il merito di aver dato vita a personaggi geniali a partire dalla sua protagonista sempre sull’orlo di una crisi di nervi, blasfema, volgare, ma allo stesso tempo un’intellettuale che compra libri ai semafori e sul cui comodino fa capolino la Recherche di Proust. Accanto a lei sfilano tipi umani tra i più variegati come la dirigente della multinazionale che si vanta nientemeno di essere la pronipote Goethe o il livoroso regista tedesco Uwe Boll, interpretato da se stesso, che ha deciso di demolire fisicamente su un ring i critici che smontavano i suoi film senza averli visti.

Do Not Expect Too Much from the End of the World è un gioiello di estrema raffinatezza non solo per la sua complessità, ma anche per la presa salda e decisa sulla realtà contemporanea, per la sua interpretazione lucida del nostro momento storico in cui l’immagine ricopre un ruolo decisivo. Un’Odissea urbana stratificata e intelligente che riproduce lo squallore del presente, il suo abisso spirituale e morale, la sua fine inesorabile che non sarà pirotecnica, ma lenta e silenziosa. Non bisogna aspettarsi troppo dalla fine del mondo.