“Qual è il tuo tormento?”
Simon Weil
Labbra non più giovani dipinte di carminio. Una pennellata scarlatta che attraversa come uno squarcio un quadro di garofani. Una porta rossa che vediamo di coltello, col timore che si chiuda. Nel suo ultimo film La stanza accanto - Leone d’oro allo scorso Festival di Venezia - Pedro Almodóvar indugia su particolari di corpi e oggetti come fossero ferite. “Qual è il tuo tormento?” è la frase di Simone Weil che apre il romanzo breve “Attraverso la vita” dell’autrice statunitense Sigrid Nunez, a cui il film di Almodóvar è ispirato, ed è anche la domanda che guida il regista spagnolo alla scoperta dei suoi protagonisti.
Ingrid (Julianne Moore) è un’autrice di autofiction di mezza età, che esorcizza la paura della morte scrivendone. Martha (Tilda Swinton) è una corrispondente di guerra con un cancro in fase terminale e un rapporto irrecuperabile con la figlia ormai adulta. Damian (John Turturro) è l’ex amante di entrambe: tiene conferenze profetizzando una civiltà senza speranza, cannibalizzata dal capitalismo. Dopo aver tentato alcune cure sperimentali Martha scopre di avere pochi mesi di vita e decide di suicidarsi usando una pillola recuperata sul dark web. Chiede a Ingrid di accompagnarla in questo percorso e di trascorrere con lei i suoi ultimi giorni in una magnifica casa vicino a Woodstock.
Al suo primo lungometraggio in lingua inglese, Almodóvar trova nelle due straordinarie interpreti femminili l’equilibrio perfetto di una sorta di dramma da camera, i cui dialoghi intimi, diretti e volutamente didascalici ci fanno scoprire via via le loro vite e i loro tormenti.
Martha è divorata da un tumore con cui non vuole entrare in guerra e decide in modo sereno e consapevole di sottrarre terreno all’avversario uccidendo il corpo che lo ospita. Ma la sua vera ferita non è la morte, che accetta e quasi desidera, quanto il rapporto inesistente con la figlia, legame di cui racconta i dettagli a Ingrid pur consapevole che non riuscirà a recuperarlo. Quanto Martha, per lavoro, è stata immersa in ambienti saturi di morte, tanto Ingrid non ha mai accettato che le cose abbiano una fine. Ma davanti alla richiesta dell’amica, pur rischiando di esser accusata di averla aiutata ad uccidersi, Ingrid accetta, sfidando i propri fantasmi.
Nonostante la lingua inglese (già utilizzata per i precedenti cortometraggi The Human Voice e Strange Way of Life) e l’ambientazione newyorkese - di cui intravediamo solo qualche veduta cittadina e una poetica nevicata rosa - Almodóvar gira un film che rimane fortemente ancorato alla sua precedente produzione. Riprende temi a lui molto cari, come l’amicizia fra donne (fil rouge di tanti suoi film), la morte (Tutto su mia madre, Parla con lei) il rapporto madre-figlia e lo scambio di neonati (Julieta, Madres Parallelas), la malattia e il rimpianto del passato (Dolor y Gloria).
Il regista ci ripropone il gusto, già presente nelle sue ultime pellicole, per una composizione delle inquadrature sempre più studiata, geometrica, dominata da colori squillanti e contrastanti (qui i complementari rosso e verde con incursioni di giallo, blu e viola accesi) e tinge nuovamente il melodramma di sfumature hitchcockiane - dalle sequenze di Ingrid che sale la scala per spiare la porta rossa a quelle finali dalle tinte thriller, fra costruzioni di alibi e interrogatori - sottolineate dalla musica, a tratti ossessiva, di Alberto Iglesias.
Il film è ricco di oggetti che si richiamano tra loro in un gioco di specchi e citazioni: innanzitutto è pieno di libri e di film ma anche di riferimenti a pittura e architettura. Fra i libri che compaiono in scena troviamo quelli scritti da Ingrid (e immaginiamo insieme a lei quelli che scriverà), quelli che sta sistemando nel trasloco, quelli desiderati e acquistati in libreria e sopra a tutti il racconto I morti tratto da Gente di Dublino, la cui fine viene declamata come una poesia da Martha.
Tra i film citati vediamo Viaggio in Italia di Rossellini (con l’inquadratura di una locandina con Ingrid Bergman, il cui nome è uguale a quello di una delle due protagoniste e molto simile a quello dell’autrice del romanzo da cui il film è tratto), i dvd di Buster Keaton, di Max Ophüls e di John Huston. La magnifica casa in mezzo al bosco (che ci ricorda le costruzioni di Frank Lloyd Wright) ospita una copia di Gente al sole di Edward Hopper, che all’interno del film viene replicata in tableaux vivant: indimenticabile la struggente inquadratura, dominata dal giallo e dal verde, che cattura tutta la luce, le ombre e la quieta tristezza di Hopper.
La luce è quella fotografata da un abilissimo Eduard Grau, che valorizza sia i tanti interni che un’accogliente e anelata natura panica. Martha vive in un appartamento attorniato da un bellissimo giardino pensile e cerca per i suoi ultimi giorni una casa immersa nel bosco e nel canto degli uccelli. I fiori, onnipresenti e spesso bianchi, compaiono in tantissime scene e anche nella grande tela coi garofani.
Nonostante il tema dell’eutanasia nel film sia centrale - e il regista spagnolo dia per scontato il diritto di scegliere come morire - ciò a cui Almodóvar sembra essere veramente interessato è la solitudine della morte. Martha non vuole morire sola, vuole qualcuno nella stanza accanto, vuole un testimone della sua morte (e quindi della sua vita), qualcuno che ne dia conto, che ne racconti.
Lo sguardo che Almodóvar posa sulla solitudine della morte è assolutamente laico e d’altra parte il regista spagnolo non ha mai fatto segreto del suo atteggiamento scettico se non apertamente ostile verso la religione e la Chiesa cattolica (La mala educación). Non c’è la consolazione di nessun dio e di nessuna vita ultraterrena. L’unico conforto è un testimone amico, che diventi anche testamento.
Lo spirito di Martha rivivrà nelle pagine che scriverà l’amica. E la sua guerra di una vita con la figlia Michelle si stempererà in un incontro impossibile che sarà - attraverso le lettere, i diari e le parole di Ingrid - se non un capirsi almeno un ritrovarsi.