La forza del desiderio, “non la sottovaluti”, dice il parroco Philippe al gendarme incaricato di indagare su una sparizione, o forse un omicidio. Desiderio incarnato da Jérémie, un piccolo diavolo dalle fattezze di Félix Kysyl (da molti paragonato all’ipnotico Terence Stamp del Teorema pasoliniano, per l’enigmatica e perturbante presenza), il quale si reca nel suo paesino d’infanzia, per assistere al funerale del fornaio, suo ex datore di lavoro.
Questo piccolo “presepe”, tra i monti e i boschi dell’Occitania, sembra riprendere vita, dopo una morte, nella figura di Jérémie il quale, tra un pastis e l’altro, provoca e incita queste statuine inanimate a ritrovare una parvenza di desiderio. L’arduo compito non può che essere accolto con ostilità da coloro che il proprio desiderio lo combattono, che sia a mani nude, con un’arma da fuoco o attraverso la fede.
Come nel precedente, Lo sconosciuto del lago (2013), il bosco si fa custode dei segreti, delle pulsioni vitali e mortifere dei personaggi. I rappresentanti dell’ordine costituito vagano in cerca di risposte, occultate da una natura complice dei più atroci delitti. Bisogna morire e lasciarsi morire per poter rinascere, come i simpatici funghi che gli abitanti raccolgono incessantemente, unici testimoni, rivelatori di morte, ma simboli di vita e di trasformazione.
Ambito e desiderato, ma potenzialmente velenoso, come i funghi di cui si nutrono i villici, Jérémie attrae ma spaventa, eccita ma repelle, provocando erezioni di cui ci si potrebbe pentire. Come Franck, l’adone baffuto che si aggirava nei battuage boschivi in riva al lago, Jérémie è un emissario del desiderio, un angelo tentatore e amorale, votato a trasgredire e a far trasgredire.
Il desiderio puro è un ospite inatteso, scomodo, invadente, a tratti inquietante; non chiede permesso, non segue regole, schemi o leggi, ma ribalta, sovverte, trasforma, destruttura, si insinua silenzioso nell’apparente tranquillità di un microcosmo in cui i ruoli sociali e istituzionali, l’aspetto estetico, i generi sessuali, l’età anagrafica, collassano, lasciando spazio a un’eccitante indeterminatezza.
La miséricorde, titolo originale del film, è ciò che dobbiamo concedere al nostro e all’altrui desiderio che, in fondo, racconta ciò che propriamente siamo e che spesso ci vergogniamo di essere. Jérémie si fa specchio di ciò che manca, che arde represso nel cuore di ognuno. C’è chi si oppone, con sfuriate feroci, vedendo in lui ciò che non potrà mai essere; chi, non sentendosi desiderabile e attraente, lo caccia con violenza, per poi pentirsene; chi confessa il proprio amore devoto e incondizionato; chi lo accoglie in casa propria, coccolandolo e accudendolo, per alleviare un’insopportabile solitudine.
Se si può parlare di queerness nel cinema di Alain Guiraudie (il quale rifiuta l’appartenenza ad una presunta “cultura omosessuale”) non è certo per le tematiche affrontate, ma per il coraggioso tentativo di dar voce al “diverso”, a tutto ciò che mette in discussione la società e l’ordine costituito, scombinandone i significati e spingendoci a disobbedire al nostro più grande nemico: il nostro piccolo “io”.
“Abbiamo bisogni di morti, di incidenti”, sono alcune delle parole che Guiraudie mette in bocca al parroco Philippe, anche lui impotente di fronte alla verità del proprio desiderio, che lo spoglia delle sue vesti canoniche, riconducendolo al suo corpo voglioso. Desiderio di fronte al quale dobbiamo avere il coraggio di “confessarci” e di spogliarci. Di notte, concediamoci di giacere con “lui”, anche solo per tenergli pudicamente la mano e, perché no, con l’aiuto di un bicchierino in più.