Rivelazione dell’ultima Berlinale, Il mio giardino persiano (Keyke Mahboobe Man in originale, “il mio dolce preferito”, il cui significato è racchiuso nel finale) s’inserisce appieno nel nuovo filone del cinema persiano contemporaneo assieme a Una separazione, Holy Spider, Kafka a Teheran, Tatami.

Opere vigorose di giovani autori che, prendendo il testimone di Maestri quali Abbas Kiarostami, Jafar Panhai, Mohsen Makhmalbaf, Mohammad Rasoulof e Majid Majidi, portano avanti l’intento contestatario dei loro predecessori contro il regime teocratico nazionale di cui evidenziano in maniera più che esplicita limiti, contraddizioni e violenza oppressiva.

Ma a differenza delle opere coeve, la co-produzione europea diretta da Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha dopo il primo Ballad of a White Cow (passato a Berlino nel 2021) fa un passo ulteriore, lavorando per sottrazione, lasciando parlare immagini vitali e veramente rivoluzionarie. Perché quella che qui da noi può apparire una drammatica commedia sulla vecchiaia, la solitudine e la possibilità di ricominciare una vita pur se in tarda età, in Iran è qualcosa d’impensabile, vietato e mai visto, almeno per vie legali, dalle generazioni nate dopo la rivoluzione islamica del 1979. E non è un caso dunque che agli autori sia stato ritirato il passaporto per uscire dal Paese e presentare l’opera all’estero: ennesima punizione esemplare che evidenzia come il film abbia centrato l’obiettivo.

La vicenda di Mahin e Faramarz, anziani soli che conosciutisi casualmente decidono di celebrare il loro incontro trascorrendo assieme l’intera notte, apre una finestra su una realtà nazionale presente ma volutamente nascosta. A un contesto pubblico opprimente e repressivo (la ragazza fermata per strada dalla polizia morale perché non indossa correttamente il velo), si contrappone di fatto quello domestico, privato e personale, in cui sentirsi liberi di esprimersi e di essere.

L’alto muro di cinta che delimita il giardino di Mahin diventa così l’invalicabile confine tra due universi che convivono con difficoltà, e per questo difeso strenuamente da indiscreti delatori e ficcanaso (la vicina sospettosa di una musica troppo alta). È l’essenza stessa di una parte crescente della popolazione persiana, che alle continue e crescenti vessazioni legislative oppone una silenziosa resistenza individuale in attesa di un riscatto collettivo, morale quanto fisico, i cui tentativi finora repressi dalle forze dell’ordine non hanno fatto che alimentare ulteriormente.

Moghaddam e Sanaeeha conducono così alla scoperta di un altro volto dell’Iran contemporaneo. Tralasciando le narrazioni di esplicita denuncia delle condizioni attuali, i due autori focalizzano l’attenzione sul non detto, conosciuto ma opportunamente taciuto, in un’operazione di avvicinamento del pubblico internazionale a una realtà sì lontana eppure al contempo così vicina tanto da renderla comune, attraverso il linguaggio universale del cinema e in generale dell’arte.

Il mio giardino persiano è un  film di piccoli gesti audaci (l’invito di uno sconosciuto a casa accolto senza hijab, il vino bevuto insieme, balli mano nella mano, abbracci e carezze preambolo di una seduzione in divenire) e dialoghi ironici sottilmente allusivi alla condizione dei personaggi, al loro futuro e a quello di un Paese la cui irrisione diventa esorcizzazione della paura, ma al contempo fiducioso auspicio di cambiamento.

Un rinnovamento non destinato alle vecchie generazioni, di cui non resta che una fotografia sfuocata e segreti sepolti nel proprio intimo, ma a cui aggrapparsi comunque con la speranza di veder rifiorire il proprio giardino dopo un lungo, interminabile inverno.