Nel 1961 un ragazzino squattrinato, vestito di stracci e armato solo di una chitarra scende da un treno e arriva a New York. Sta cercando Woodie Guthrie, suo idolo e leggenda della folk music americana, bloccato in ospedale da una malattia. A tenere compagnia al pover’uomo c’è solo Pete Seeger, anch’egli massimo esponente del genere musicale, che accoglie il ragazzo e lo invita a cantare.
Entrambi restano folgorati. Il giovane dice di chiamarsi Bob Dylan, anche se probabilmente non è il suo vero nome. Dirà poi di aver lavorato in un circo itinerante dove un cowboy gli ha insegnato qualche accordo, ma forse neanche questo è vero. Sta di fatto che sa cantare e nel giro di qualche anno finisce per travolgere l’intera scena musicale, diventando un punto di riferimento per pubblico e artisti.
Il passato del personaggio è nebuloso, eppure James Mangold non sembra interessato a raccontare la storia di Bob Dylan, rifiuta la struttura tipica del biopic (adottata invece in Walk the Line) e alla fine del film la sensazione è di non sapere molto di più sulla persona di quanto non sapessimo prima di entrare in sala. Non ci sono traumi infantili, figure malvagie intenzionate a sfruttarlo, storie d’amore particolarmente significative, oppositori invidiosi o un brutto rapporto con le droghe.
Il ragazzo è un mistero e così come arriva, poi se ne va. A Complete Unknown. Quello che sappiamo è solo l’impatto che ha avuto, sulla musica, sul pubblico, sulle persone che lo hanno amato e quelle che lo hanno odiato. In questo senso non possiamo che vederlo attraverso gli occhi degli altri. E c’è da dire che neanche questi altri lo capiscano poi tanto bene. Dylan infatti è una figura scostante, sgarbata, anzi, è veramente un asshole, per dirla alla Joan Baez.
Per questo risulta davvero difficile empatizzare con lui, se non fosse che quando canta è capace di rendere poetico persino l’ultimo giorno della Terra. In strada c’è il caos, il mondo è a un passo dall’olocausto nucleare e lui è in una bettola a suonare come se nulla fosse. Ecco che allora le cose iniziano ad avere più senso. Lo stesso regista, intervistato da Variety, ha detto “how much of an enigma can be a man be who’s released 55 records?”. E a dire il vero non ha tutti i torti.
Le canzoni raccontano l’artista e attraverso chi lo ha vissuto in prima persona, in quel preciso momento storico, abbiamo modo di capire una parte di ciò che significano. Sono briciole e sicuramente Mangold lo fa apposta, perché quello di Bob Dylan è un enigma che vuole solo raccontare, non risolvere. Forse non può neanche essere risolto. Non a caso il personaggio ha tutti i tratti della divinità. Arriva dal nulla e non ha un passato, è adorato da chiunque seppure nessuno sembri conoscerlo davvero, crea opere sensazionali senza il minimo sforzo e compie scelte rivoluzionarie, anche se apparentemente assurde. In virtù di ciò che fa gli vengono addossate colpe, meriti e responsabilità, ma nonostante tutto lui rimane indifferente e va dritto per la sua strada.
Le vie del Signore sono misteriose direbbe qualcuno, ma provocazioni a parte ciò che il regista sembra voler raccontare è la difficoltà di un artista la cui libertà e incomprensibilità vanno in contrasto con le aspettative del pubblico e le esigenze dell’industria. Dylan non vuole essere etichettato, non vuole soddisfare nessuno e non sente di dovere nulla a chi lo ha aiutato a emergere.
Paradossalmente l’antagonista della storia è Pete Seeger, un tenerissimo signore di mezza età che conduce programmi educativi in TV e canta di pace e amore con il suo banjo. Tutto ciò che gli chiede dopo aver lanciato la sua carriera è di suonare tre pezzi folk per un’ultima volta. Lasciamo immaginare a voi la sua risposta.
Dicevamo, è facile odiare Dylan, ma il senso dell’operazione sta tutto lì. Non importa sapere chi sia davvero questa persona, cosa abbia fatto nella vita, o come sia diventato ciò che è (e guai a chiedergli da dove vengano le sue canzoni), il punto è proprio l’inafferrabilità. A maggior ragione, una volta raggiunto un certo status, una volta che il ragazzino diventa Bob Dylan, il personaggio inizia a nascondersi. Indossa quel paio di occhiali quasi fossero il cappello di Clint Eastwood nella trilogia del dollaro e proprio quando si ha l’impressione di riuscire finalmente a vedere attraverso le lenti, se li toglie e attacca la chitarra all’amplificatore.
Forse nel tentativo di spiegare l’inspiegabilità stiamo scrivendo anche troppo. In conclusione allora, vorremmo solo dire che probabilmente neanche Mangold ci tiene poi così tanto a farsi capire: fa un biopic senza la componente biografica e quasi fosse una presa in giro lo intitola A Complete Unknown. Vabbè, in fondo anche lui è un artista.