Lo sceneggiatore Cesare Zavattini parlava spesso di pedinamento per riferirsi a quei film ove la macchina da presa inizia a seguire instancabilmente un personaggio alla ricerca di un qualcosa. Questa predisposizione dinamica è percepita anche in Luce, il secondo lungometraggio di Silvia Luzi e Luca Bellino, presentato in concorso al Festival di Locarno, che dopo Il cratere (2017) tornano insieme per indagare i rapporti di potere, stavolta tra una figlia e un padre. L’intero film sembra essere costruito su un principio di assenza, più un’acuta presenza.

La giovane protagonista (Marianna Fontana), di cui non conosciamo mai il nome, è un’operaia che lavora in una fabbrica di conceria per la pelle. La sua vita trascorre in un piccolo paese montuoso dell’Irpina ed è scandita da una monotonia meccanica e alienante, come in trappola all’interno di una catena di montaggio che non offre alcuno stimolo o ambizione. Questo, fino a quando non inizia a ricevere delle telefonate da parte di una voce fantasma (Tommaso Ragno) che sostiene di essere il padre, recluso in carcere, e con il quale, la giovane inizierà a raccontare e riempire le sue vuote giornate.

I momenti in cui figlia e padre si telefonano, inarcano l’incrocio diegetico tra realtà e immaginazione e si sublimano come evasione, come l’illusione di avere una figura paterna - ora rassicurante, ora ieratica - che indica la luce, la strada per comprendere la propria vita. Le telefonate, che sono state girate in piano sequenza, permettono alla macchina da presa di concentrarsi sul volto della protagonista, di pedinare le sue espressioni mediante primi e primissimi piani e di entrar dentro al suo sguardo disilluso e vagante.

A questi momenti di insostenibile leggerezza, si frappone lo sfondo documentario della vita operaia, il rumore meccanico e assiduo della fabbrica, le fitte dolorante alle mani, l’alienazione dell’identità. Luzi e Bellino si fanno portavoce di un neorealismo operaio, un bisogno e una necessità di manifestare una presa di coscienza sociale interessata e vigilante della classe operaia, sulla scia de La classe operaria va in paradiso (1971) di Elio Petri e che, già il primo lungometraggio Il cratere aveva intercettato. Il taglio documentario si configura come cifra registica e stilistica di una visione rivolta al vuoto delle esistenze operaie che cercano di riempirsi di significati tangibili oppure immaginari.

I personaggi che vagano nell’assiduo tentativo di affermare la propria identità - come la nostra protagonista - riecheggiano allo spaesamento di alcuni celebri volti. Basti ricordare Ladri di Biciclette (1948) e Umberto D. (1952) di De Sica oppure il vagare esacerbato tra le macerie del piccolo Edmund in Germania Anno Zero (1948) di Rossellini. A ciò si lega la scelta, da parte dei registi, di coinvolgere attrici non professioniste per il ruolo delle altre operaie, che lavorano realmente nella fabbrica a Irpina.

Il risultato è un’immediatezza comunicativa e visiva in grado di sollevare un sentimento di umanità empatica nei confronti di coloro che tentano di approfondire la propria esistenza al di fuori delle mura della fabbrica. In Luce la responsabilità di questa missione è affidata alla sola voce del padre che, nel suo oscillare tra vero e falso, tra realtà e immaginazione, restituisce alla protagonista quel ruolo di figlia protetta, sgridata e amata che non ha mai interpretato.

Luce è un film corporeo, in equilibrio precario tra assenza e presenza, all’interno del quale i personaggi vagano come fantasmi ciechi. L’intreccio tra realtà e finzione si snoda attraverso uno sguardo documentario che penetra negli ingranaggi esistenziali della fabbrica per portare alla luce il meccanismo umano.