Tra i numerosi momenti memorabili contenuti in un capolavoro di David Lynch, The Elephant Man, vogliamo ricordare qui una scena cruciale. Sia drammatica, dispiegandosi davanti ai nostri occhi attraverso la giocosità tipica della burla carnevalesca, sia illuminante, poiché implacabile nello scompaginare nuovamente le aspettative di un pubblico abituatosi fino ad allora alla paura di non poter né partecipare al dolore del mostro indagato né di sostenerne lo sguardo.

Difatti, nonostante una serie di immagini premonitrici – la notte; un corridoio deserto; la sua sinistra ombra seduta sul letto; il coro polifonico di nuvole che, rincorrendosi, sembrano annunciare un orrore inesprimibile –, il mostro in questione non è sicuro di sé, ma ha paura di ritrovarsi nello sguardo altrui. E Joseph Merrick, suo malgrado salito alla ribalta durante l’età vittoriana a causa delle malformazioni che ne deturparono il corpo, ubriacato dal losco guardiano Jim e costretto a baciare una donna inorridita, vergognandosi del raccapriccio suscitato dal suo aspetto, chiude gli occhi. Rivelando ancora una volta una straordinaria vulnerabilità.

Una trentina di anni dopo gli eventi appena descritti, un tetro maestro di cerimonia, lavorando con calma e metodo, introduce al suo uditorio morbosamente curioso l’ultima attrazione: un mutilato di guerra. Mentre signore e signori si fregano le mani, come pregustando l’arrivo di un bottino, il reduce irrompe in scena con la sua arma. Nell’eseguire la sua marcia, ridicolo di fronte al passare del tempo e alla natura effimera di fama e gloria, presta più attenzione alla tenuta della maschera in grado di proteggere quel che resta del volto da sputi e insulti che all’effettiva riuscita del numero.

Terminata la routine, il maestro di cerimonia non appare, tuttavia, sazio. Come se non conoscesse la reale identità del suo prigioniero, chiede: “Chi potrebbe essere abbastanza coraggioso da toccare il suo viso?”. Il povero diavolo, allora, presenta al pubblico l’abisso di norma riservato a un reietto. D’improvviso, tra le urla e lo sconcerto sorto tra i più fortunati, una mano femminile si erge, determinata a toccarlo. Dimostrato con successo che nella zona in cui una volta saettava l’occhio destro ora esistono un paio di monchi nervetti penzolanti, il maestro di cerimonia propone una seconda prova. “Saresti abbastanza coraggiosa da dargli un bacio?”.

Tra le due scene, anche se unite da un sottile filo che lega le loro storie attraverso luoghi ed epoche diverse, rimane una differenza sostanziale. La prima, attenta all’umanità dei personaggi in scena, è frutto dell’immaginazione di un autore genuinamente affascinato dall’ignoto. La seconda, invece, si limita a citare la prima.

L’umanità, che mistero! Ecco l’elemento mancante in The Girl with the Needle, terzo lavoro dello svedese Magnus von Horn, nominato al Premio Oscar al Miglior Film Internazionale, e apparso in Concorso allo scorso Festival di Cannes (ora visibile su MUBI). Se in prima battuta si potrebbe azzardare un immediato paragone con il recente La ragazza d’autunno di Kantemir Balagov (2019), un’opera portatrice di un’estetica più raffinata, ma ugualmente dedita alla sterile ricerca di una splendida cornice, sono ancora più illustri, a ben pensarci, i modelli che hanno influenzato von Horn.

Ispirato al caso di Dagmar Overbye, condannata per aver commesso, nella Danimarca degli anni Venti, nove infanticidi– probabilmente, venticinque, non completamente appurati, in mancanza di prove – The Girl with the Needle, riprendendo a partire dall’incipit il meglio di registi quali Ingmar Bergman (Persona), Friedrich Wilhelm Murnau (L’ultima risata) e Tod Browning (Freaks), esordisce squadernando un montaggio di volti. Questi volti, tenuti insieme da ansiti e tremiti sussultanti, si dimenano e si contorcono. Dalle labbra eruttano parole a noi sconosciute. Infine, quando il respiro, trattenuto, prorompe di getto, inframmezzato da una musica “gotica” che si leva in un lamento, von Horn, al pari del suo collega norvegese Halfdan Ullmann Tøndel – nipote di Bergman e regista di Armand, incerto debutto salvato dall’interpretazione di Renate Reinsve – esibisce un’ambizione sfrenata ma narcisa.

All’innegabile pregevolezza delle immagini, possibile grazie al talento del suo giovane direttore della fotografia – Michal Dymek, già apprezzato per il suo lavoro in EO di Jerzy Skolimowski –, s’affianca la strisciante sensazione di essere in presenza di un’occasione persa. Poiché nella parabola di Karoline (Vic Carmen Sonne), giovane operaia in una fabbrica tessile appena sfrattata che, dopo aver intrecciato una breve relazione con il proprio datore di lavoro, si ritrova disoccupata e in attesa d’un figlio non desiderato, salvo poi rimpiombare in un incubo ancor maggiore, non s’intravede l’attesa stratificazione psicologica nel racconto (per quanto i temi menzionati sparsamente promettono a più riprese un film, al contrario, affascinante e complesso).

Oltre alla prevedibilità della vicenda, a discapito di un tangibile scavo introspettivo all’interno dell’anima di Dagmar (Trine Dyrholm), persuasa dal grigiore dickensiano del mondo a eliminare la vita alla radice, tanto da lanciarsi, a processo, in una perorazione a là Monsieur Verdoux, a restare è la crudeltà. La crudeltà con cui una nobildonna ridotta alla povertà schiaffeggia la figlioletta, terrorizzata dal ghigno con cui Karoline le anticipa che la futura dimora sarà invasa da un esercito di ratti. La crudeltà con cui Svendsen adocchia Karoline, inducendola a temere un più che possibile stupro. La crudeltà con cui la Baronessa, madre di Jørgen, non credendo alla parola di Karoline, non esiterà a chiamare un medico per rilevarne la gravidanza, violandone il corpo. La crudeltà con cui la cinepresa si sofferma su un neonato in lacrime abbandonato su un divanetto.

Al di là del male, materia sviscerata in tempi recenti con audacia e originalità da Jonathan Glazer in La zona d’interesse, poco può redimere un lieto fine posticcio e autocompiaciuto, se il progetto è condizionato da una successione di traumi sondati con un atteggiamento voyeuristico. Inoltre, a poco serve sottolineare che un altro film, l’olmiano Vermiglio di Maura Delpero, riflessione sulla maternità di gran lunga più consapevole e matura, avrebbe meritato la nomination al Premio Oscar ottenuta dalla Danimarca.