Ispirato a La Fonte meravigliosa di King Vidor e in diretta continuità stilistico-tematica con il suo film d’esordio L’Infanzia di un capo, The Brutalist racconta le contraddizioni dell’America postbellica: potenza deflagrante che attrae e respinge, producendo uno sradicamento etico nei confronti dei suoi figli adottivi.

Il protagonista è László Tóth (Adrien Brody), architetto ebreo di origini ungheresi giunto in Pennsylvania dopo essere scampato alla furia nazista. Accolto dal cugino Attila, cerca di adeguarsi alla nuova vita in attesa del ritorno della moglie Erzsébet (Felicity Jones) e della nipote Zsofia. Dal 1947, per tre decenni, László sperimenta l’abbandono, la fuga psicotropa dalla realtà e l’affermazione professionale grazie a Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), ricchissimo mecenate che si rivela però un cinico manipolatore.  

Se L’Infanzia di un capo portava alla ribalta il prodromo nazista attraverso l’esaltazione autocratica del potere, The Brutalist distorce ogni prospettiva morale del paese delle grandi opportunità, tanto stilisticamente – pensiamo al movimento vorticoso della macchina da presa che rovescia simboli e prospettive (una Statua della Libertà capovolta, riprese d’ambiente cariche d’umori dissonanti) – quanto sfruttando il peso dell’allegoria e la portanza dell’impianto letterario.

Si potrebbe definire il terzo lungometraggio di Corbet – 214 minuti, un prologo, tre capitoli, un intervallo e un epilogo – un film-opera che permette alla figura e al contesto di abitare la scena in modo funzionale, seguendo proprio l’idea alla base del Bauhaus: “la forma segue la funzione”.

In entrambe le opere Corbet immagina un futuro “modernista” del cinema sotto forma di kammerspiel dall’afflato epico ma dal battito irregolare, modellando spazi e figure con deformazioni visionarie e stranianti. Cinema passatista (in VistaVision 70mm) che guarda a un orizzonte gravido di moniti inesorabili e di allusioni a un sistema totalitario che, esploso ne L’Infanzia di un capo, lascia ora residui impazziti a riempire gli spazi bui dell’America del cemento e dell’acciaio.

Perché The Brutalist non fa altro che seguire la scia del brutalismo architettonico per colmare di senso ogni interstizio rimasto incorrotto, ogni pensiero vergine nell’era industriale e capitalistica di cui László è vittima e “prodotto” in serie. Sinfonia distorta del “mondo grande e terribile” di gramsciana memoria, The Brutalist procede in mezzo a “petrose” rime (memorabile la sequenza a Carrara) e al minimalismo del Bauhaus che dà forma concreta alle geometrie stentoree del comando; il pensiero va a P.T. Anderson, a Il petroliere e The Master, nell’edificazione, mattone dopo mattone, di un affresco epico che esemplifica la mistica del potere.

Quando l’opera del protagonista sembra ormai indirizzata verso la fama imperitura, la vita esige il suo tributo da pagare al falso benefattore, allegoricamente, il tremendo Leviatano biblico che ricorda molti dei personaggi andersoniani.

Adrien Brody, spigoloso revenant, e Guy Pearce, feroce milionario, estremizzano la dialettica servo-padrone, tra l’aneddotica affabulatoria che Corbet e Mona Fastvold ricreano in una perfetta commistione tra scrittura e messa in scena (potenziata dal sonoro disturbante di Daniel Blumberg), all’interno dell’epoca del non-finito: qui, nei luoghi in cui la memoria si intreccia alla storia, si delinea la feroce poetica dello sradicamento, una gabbia libertaria e liberticida.

Non si può non pensare, dunque, a La notte di Elie Wiesel, perché il film di Corbet racconta le rovine dopo le macerie, la progressione e, insieme, l’involuzione di “ogni cosa verso la fine; l’uomo, la storia, la religione, Dio. Non c’è più nulla. Eppure noi ricominceremo con la notte”.