A Real Pain inizia e si conclude nella sala d’aspetto di un aeroporto, mentre un giovane uomo si guarda intorno con espressione malinconica. È Benji (Kieran Culkin), seduto in attesa dell’arrivo del cugino David (Jesse Eisenberg) per prendere insieme l’aereo.
David e Benji sono cresciuti come fratelli a New York, ma negli ultimi tempi si sono persi di vista. In occasione della morte della nonna, cui Benji era particolarmente legato, i due hanno deciso di partecipare a un viaggio della memoria in Polonia. L’obiettivo è onorare non solo la vita della donna, scampata all’Olocausto, ma anche riconnettersi con le radici ebraiche della famiglia e, si spera, ristabilire una connessione tra loro due.
Il tempo della storia coincide con la durata di questo viaggio – tanto che, come già anticipato, lo spettatore saluterà i due protagonisti al termine del loro pellegrinaggio. Ciononostante, A Real Pain non si limita ad esplorare l’eredità dell’Olocausto per gli immigrati di terza e quarta generazione – riflessione autobiografica nella misura in cui anche Eisenberg, sceneggiatore e regista del film, è cresciuto a New York e ha origini ebraiche –, bensì si propone di esplorare la profondità e le dimensioni del dolore menzionato nel titolo.
David e Benji, è chiaro da subito, hanno caratteri molto diversi. Benji è estroverso, senza filtri, ma sotto la sua esuberanza nasconde un tormento latente che talvolta esplode senza preavviso. David è, al contrario, controllato e introverso. Vorrebbe avere il carattere del cugino, ma non lo capisce fino in fondo e non riesce ad accettare il suo potenziale sprecato. Certo, riconosce, Benji soffre: ma non soffriamo tutti, in qualche modo? “Anche io – specifica David – sto male. Ma prendo le medicine, faccio jogging, medito, vado al lavoro e torno a casa. Vado avanti, perché so che il mio dolore non è eccezionale e non sento il bisogno di farlo pesare a tutti”. I due si scontrano, insomma, su cosa significhi soffrire: David non riesce ad accettare il modo disordinato e autodistruttivo con cui Benji manifesta il proprio malessere, mentre il cugino gli rinfaccia il suo allontanamento e la quasi completa chiusura emotiva.
L’incomunicabilità della sofferenza interiore all’interno di dinamiche familiari è, peraltro, un tema molto caro ad Eisenberg, che nel 2022 ha esordito alla regia con il comedy-drama familiare Quando avrai finito di salvare il mondo.
Il film, in quel caso, esplorava la sensazione di totale disconnessione tra una madre, Evelyn (Julianne Moore), fondatrice di un centro antiviolenza, e il figlio adolescente Ziggy (Finn Wolfhard), aspirante musicista. Nessuno dei due capisce l’importanza di ciò che fa l’altro, né la madre intuisce la crisi che sta germogliando nel figlio. Ziggy, infatti, percepisce i suoi pensieri come scollegati dai propri sentimenti e teme che potrebbe essere “Il cantautore più famoso al mondo, ma non risolverebbe comunque nessun problema reale: perché qualunque cosa io faccia avrò sempre, in un certo senso, un dolore persistente”.
Le riflessioni di David e Ziggy, quasi in dialogo intertestuale tra loro, rappresentano un rifiuto programmatico da parte di Eisenberg di raccontare il dolore come esperienza trasformativa, preferendo indagare come persone diverse lo affrontino nella sua lunghissima persistenza. Non è forse un caso che i due punti di forza di A Real Pain siano la sceneggiatura originale di Eisenberg e la prova attoriale di Culkin, premiato ai Bafta, ai Golden Globes e agli Oscar come Miglior attore non protagonista; similmente ai loro personaggi, in effetti, Eisenberg e Culkin mettono in scena diverse interpretazioni di quel dolore “reale”, lavorando sui silenzi più che sul conflitto aperto.
Non ci sono infine risoluzioni, rivelazioni, confronti definitivi; il dolore persiste. A Real Pain si chiude senza una vera e propria catarsi, abbandonando Benji nella stessa sala d’aspetto in cui l’aveva trovato all’inizio. Salutandolo, lo spettatore non può che sperare – come David, del resto – che il peso che porta diventi, in qualche modo, più sopportabile.