Pasolini non gli piace (ma si masturba su Salò), Gramsci non sa scrivere e Benigni è un incapace. Questi sono alcuni aspetti della saccenza di uno dei diciannovenni più insopportabili mai visti sullo schermo. Se Guadagnino (qui nelle vesti di produttore) e i suoi film vengono spesso criticati per una presunta spocchia intellettuale, qui assistiamo all’apoteosi dell’arroganza e dell’autocelebrazione da parte dell’esordiente Giovanni Tortorici.

Seppur sia evidente la capacità del giovane cineasta nel restituire l’aspetto tattile, olfattivo, quindi sensoriale della realtà (come il miglior Guadagnino) attraverso un utilizzo molto concreto degli spazi, dei luoghi, degli oggetti con cui il protagonista si relaziona, il tutto risulta stilisticamente pomposo, ma del resto appropriato alla personalità di Leonardo, alter ego del regista.

Tra split screen, fermoimmagine, slow motion, sovraimpressioni, e inserti animati, il regista sembra giocare con tutti i mezzi a sua disposizione per mettere in scena la dissociazione storico-temporale del suo personaggio, totalmente disinteressato ai rapporti umani e allo stile di vita dei suoi coetanei, rappresentanti di una contemporaneità descritta come unicamente edonista e vuota.

Si passa dalle grandi metropoli, Londra e Milano, in cui a dominare sono discoteche, sbornie e scambi di fluidi poco significativi, all’appartamentino di Siena, che diventerà il covo narcisistico di un ragazzo troppo speciale per confrontarsi con un mondo stupido e superficiale.

Leonardo non sopporta nessuno: dai professori che reputa incapaci e ignoranti, alle povere coinquiline, alla collega di università che gentilmente prova ad includerlo nel gruppo di amici. Nessuno sembra comprendere la “sensibilità” di questo giovane sessualmente represso, che trova compagnia esclusivamente in poeti e scrittori morti del passato, con cui instaura un rapporto reverenziale, celebrativo e di assoluta devozione, come farebbero i giovani di oggi nei confronti del loro cantante, divo o influencer preferito.

Tanto avrebbe da imparare il giovane Leonardo da Elio, ragazzo ugualmente colto ma umile (in quel capolavoro generazionale di Luca Guadagnino che è Chiamami col tuo nome), che attraverso la cultura, l’arte, la musica, i libri instaura un rapporto erotico di conoscenza con sé stesso e con l’altro, che invece Leonardo sembra reprimere, rifiutare, rigettare, in favore di un bieco e sterile moralismo nei confronti della contemporaneità, per poi sublimare le proprie pulsioni in un morboso voyeurismo.

Ci si può facilmente immedesimare nella veritiera descrizione della vita da studente fuori sede che Tortorici, con sguardo attento e meticoloso, riesce a mettere in scena: dall’appartamentino malconcio e quasi maleodorante, ai confronti con i professori, alle telefonate con la mamma a tema esami e soldi, alle buste della spesa che si bucano (ad un certo punto si bucherà anche la pellicola). Sarebbe tuttavia preoccupante sapere che qualcuno si sia identificato nell’autocompiacimento di un personaggio i cui giudizi categorici probabilmente non interessano a nessuno, se non al suo regista.

Arriva, forse un po’ troppo tardi, lo psicanalista e filosofo Sergio Benvenuto (quasi un Aldo Fabrizi altolocato), che ridimensiona l’ego ipertrofico di questo scolaretto da strapazzo, dicendo quello che forse avremmo voluto dirgli per tutta la durata del film: “attento al fanatismo, che porta alla cretineria”. Se l’intento era descrivere una gioventù narcisista e incapace di relazionarsi con “l’altro”, Tortorici ha centrato il segno. Leonardo, dopo tutto, non è tanto diverso da chi va al Gattopardo di Milano, solo che lui vorrebbe andarci da “principe”.