Ci sono poche opere cinematografiche in grado di racchiudere al proprio interno l’eredità del cinema che le ha precedute e allo stesso modo essere precorritrici di forme e pulsioni che avrebbero segnato le produzioni dei decenni futuri. Tra questi pochi titoli intramontabili riconosciamo senza alcuna esitazione Blade Runner di Ridley Scott, adattamento del 1982 da uno dei più celebri romanzi di Philip K. Dick.
Riuscita a superare la notorietà dell’opera matrice, da cui prende temi e personaggi senza cedere all’errore di un’aderenza pedissequa, la trasposizione di Scott si è guadagnata lo statuto di classico del cinema fantascientifico nell’epoca della modernità hollywoodiana. Massima espressione creativa di un regista che oggi riconosciamo come uno dei più prolifici mestieranti della settima arte, Blade Runner risplende a distanza di oltre quarant’anni, ancor prima che per la sua inesauribile portata filosofica, per l’ammaliante densità cinefila che lo caratterizza.
La fumosità del noir americano viene in questo film applicata ad una Los Angeles distopica ricostruita secondo l’architettura delle metropoli orientali. Sobborghi vaporosi e baluginanti di meravigliose cianfrusaglie futuristiche si dipanano ai piedi di immensi palazzi che si innalzano senza fine. Scenografie certamente debitrici del lavoro di Hans Ruedi Giger (come d’altronde e maniera ancora più massiccia era avvenuto per la precedente opera di Scott, Alien), ma che soprattutto nella vertiginosa sequenza conclusiva tradiscono anche una pesante ispirazione espressionista. L’arena di Blade Runner è infatti una Metropolis in senso langhiano, sia in termini architettonici che sociali, edificata secondo una verticalità che ne rispecchia il rigido schema di classi.
A ciò si aggiunge la contaminazione dalla nascente cultura cyberpunk per dare vita ad un organismo pulsante che oltrepassa il grado di ambientazione per farsi a tutti gli effetti materia emotiva del film. Ed è nelle trame di questa ipertrofica città del futuro (anche se l’anno è l’ormai trascorso 2019) che prende vita una delle più profonde riflessioni sul concetto di umanità mai elaborate attraverso l’uso della macchina da presa. “Voglio più vita”, tuona Roy Batty (il leggendario Rutger Hauer, nel ruolo che ha segnato la sua carriera), androide di ultima generazione, mentre rivolge al proprio creatore la richiesta di porre rimedio al sistema di obsolescenza che limita a soli quattro anni la sua operatività.
Roy sta morendo, ma è cosciente del fatto che le sue capacità siano troppo preziose per andare perdute, ha visto cose che gli esseri umani non potrebbero immaginarsi nemmeno nelle loro intere, ben più longeve, esistenze. L’acquisizione della coscienza della propria superiorità fisica e intellettuale rispetto ai propri artefici e la conseguente ribellione per l’ottenimento di quel tempo tanto agognato rende questi individui pericolosi. Ecco dunque l’intervento del detective Rick Deckard - Harrison Ford in un periodo prolifico come raramente se ne sono visti nella storia del cinema – chiamato a stanare ed eliminare i ribelli, ormai considerati alla stregua di creazioni difettose.
Biologicamente più umano rispetto ai “lavori in pelle” cui deve dare la caccia, ma eticamente provato da un contesto decadente, Deckard asseconda la propria sopravvivenza inerziale ed entra in contatto con l’insospettabile sensibilità degli androidi. Esseri senzienti, empatici, umani sotto molteplici aspetti ma intollerabili per coloro che si occupano del mantenimento dello status quo. La conflittualità tra l’incarico cui Deckard non può sottrarsi e l’ultimo barlume della sua moralità raggiunge il culmine nell’inseguimento finale, apoteosi emotiva, concettuale ed estetica del film.
Un gioco crudele in cui i ruoli si invertono, la preda diventa il predatore in una rincorsa che parte dalle sontuose aule cyber-vittoriane dell’abitazione di J.F. Sebastian per poi consumarsi sulla sommità dei grattacieli, in una tensione verso l’alto che conduce al massimo gesto di compassione; il moto di pietà di una macchina verso un essere umano. Un ribaltamento di prospettive che racchiude tutta la complessità di un racconto che elude il facile binarismo tra bene e male, per farsi analisi concentrata su cosa significhi identificarsi come esseri viventi.
Nel momento in cui l’umano prova a diventare Dio, esso viene colto dall’esigenza di controllo sulle conseguenze imponderate delle proprie azioni. Viene sovrastato dagli effetti collaterali e connaturati della scoperta intesa come ceca tensione al potere, che conduce alla creazione di nuove forme di intelligenza da plasmare, addomesticare ed eventualmente sopprimere nel momento in cui sfuggono al loro immediato incarico.
Riflessione quanto mai attuale e che grazie al pregevole connubio con la sostanza cinematografica riesce a mantenersi straordinariamente lucida. Blade Runner rimane un film che, grazie ai molteplici aspetti presi in esame, conserva un fascino intatto e inscalfibile, un bagliore umbratile che nemmeno l’ottimo sequel di Denis Villeneuve datato 2017 è riuscito a rievocare pienamente.
Un risultato magnifico dell’unione di più menti creative che, ben lungi dall’andare perduto “come lacrime nella pioggia”, è ancora grado di ergersi come un monumento filmico impossibile da replicare.