Corre l'anno 1976: il film arriva nelle sale italiane a fine estate, pochi mesi dopo aver vinto la Palma d'Oro alla 29esima edizione del Festival di Cannes. A tre anni di distanza da Mean Streets, ambientato nelle strade di Little Italy, con Taxi Driver Martin Scorsese torna nello scenario metropolitano della New York degli anni ’70, ritraendone il disfacimento e la desolazione nei toni angoscianti di quello che può essere definito un cupo neo-noir esistenziale.
Avviando la collaborazione con Paul Schrader – che qui firma una sceneggiatura originale – Scorsese sceglie il racconto in prima persona, tramite voice over, per tracciare la parabola di Travis Bickle (Robert De Niro), un marine in congedo che decide di lavorare come tassista per tenersi occupato nelle notti insonni. Dodici ore passate al volante eppure non riesce a dormire, così i giorni e le notti diventano interminabili, trascorse tra viaggi in taxi e cinema a luci rosse.
Travis guida in ogni quartiere di New York, senza distinzioni, anche dove è sconsigliabile addentrarsi senza una pistola: per lui non fa nessuna differenza, l'importante è lavorare. Il girovagare in taxi nello squallore e nella “immondizia” della città sottolinea la solitudine e l’alienazione cui Travis è condannato senza apparente possibilità di una via di uscita.
Ispirandosi al protagonista de La nausea di Sartre, Schrader crea un personaggio costantemente circondato da persone, eppure irrimediabilmente solo: il simbolo assoluto della solitudine urbana. La solitudine m'ha perseguitato per tutta la vita. Dappertutto: nei bar, in macchina, per la strada, nei negozi, dappertutto. Non c'è scampo: sono nato per essere solo. La fotografia di Michael Chapman inquadra New York attraverso il parabrezza bagnato e lo specchietto retrovisore, che incorniciano volti e figure vaganti di notte nella giunga d’asfalto: drogati, ladri, prostitute, sfruttatori.
Quello di Taxi Driver è un mondo infernale, dove razzismo e misoginia scorrono nelle vene della città, immersa in una nefasta luce rossa. Soltanto un altro diluvio biblico, evocato dal nauseato Travis, potrebbe ripulire le strade una volta per tutte. Non è un caso che sia il regista che lo sceneggiatore abbiano ricevuto un'educazione religiosa che influenza, anche qui, la loro creazione artistica.
L'unica persona che sembra estranea a questo “sozzume” è Betsy, da cui Travis è affascinato perché sembra un angelo immune all’inferno e che invece si rivelerà “come tutti gli altri”. Dopo un appuntamento finito male, in cui Travis la invita a vedere un film a luci rosse, Betsy non vuole più saperne di lui. Dopo questo rifiuto, Travis attua una trasformazione, acquista delle armi e progetta di uccidere il senatore Palantine, candidato alle elezioni presidenziali per cui Betsy lavora.
Quando il piano viene impedito dagli agenti di sicurezza, Travis rivolge il suo progetto omicida verso il magnaccia Sport (Harvey Keitel), protettore della prostituta minorenne Iris (Jodie Foster), conosciuta casualmente durante un turno di lavoro. "Io ho sempre sentito il bisogno di avere uno scopo nella vita", si dice Travis, e il suo scopo diventa salvare Iris dall'inferno in cui si trova.
È quasi straziante osservare l'inadeguatezza e l'incapacità di Travis nell'intrattenere rapporti sociali e umani, così come è inevitabile allinearsi al suo punto di vista, complici l'espediente della scrittura del diario o la famosa soggettiva del bicchiere con la pastiglia effervescente che si scioglie nell'acqua. Eppure la macchina da presa non esita a prendere le distanze dal personaggio, con movimenti che lo lasciano fuori campo o inquadrature distaccate (come quella dopo la carneficina finale).
Queste sono solo alcune delle scelte stilistiche non convenzionali che rendono il film un prodotto esemplare della New Hollywood, dove la chiara e semplicistica contrapposizione tra bene e male lascia spazio all'ambiguità e alla complessità morale, con il conseguente disorientamento dello spettatore.
A questa ambiguità di valori e punti di riferimento corrisponde un commento musicale che alterna due temi principali dalle sonorità contrastanti: da una parte la sensualità del sassofono blues, dall’altra la durezza di ottoni e percussioni. L’intensità del sottofondo musicale accompagna anche le immagini del massacro che, nonostante la desaturazione dei colori per eludere la censura, mantengono una suggestiva potenza visiva.
Il finale ripropone lo stesso motivo che ha punteggiato il film fin dai titoli di testa, ma con un elemento aggiuntivo. L’arpa, che si inserisce tra i suoni cupi e gravi di ottoni e percussioni, diventa la traduzione musicale della solitudine di Travis nella società malata e corrotta in cui ha tentato di diventare qualcuno. Società che, dopo averlo escluso e isolato, ora è pronta a riabilitarlo proclamandolo un eroe nazionale, con titoli celebrativi sulle prime pagine dei giornali.
Tutto sembra risolto, eppure il film lascia aperte molte domande, sulle motivazioni profonde delle azioni di Travis, così come sulla possibilità che l'uomo sia davvero cambiato. Ed è questa incertezza che rende così iconico il film di Scorsese. Lo spaesamento e la vaghezza non risparmiano neanche il finale, dove il riflesso dello sguardo di Travis allo specchietto retrovisore si confonde tra le luci e le insegne che fluttuano nel buio della metropoli notturna.
Seguiamo il suo sguardo prima che sparisca nei titoli di coda, dove viene omaggiato Bernard Hermann, compositore della colonna sonora deceduto dopo l’ultima sessione di registrazione e alla cui memoria il film è dedicato.