La terra trema all'ospedale pubblico Niguarda di Milano. Nei piani superiori, il fragore di un martello pneumatico disturba le delicate operazioni tra vita e morte del centro per la disforia di genere. Il responsabile del reparto, il dr. Maurizio Bini, si avventura nel cantiere per spegnere il pericolo. Ma altri terremoti sono all'orizzonte: si mormora di un'ispezione burocratica, il che impone al reparto di seguire alla lettera la legge; alla radio, la voce di Giorgia Meloni infiamma la folla su una retriva e restrittiva definizione di maternità.

Quante responsabilità gravano sulle spalle di questo “capocantiere”: deve fare l'umanista con i pazienti, il direttore d'orchestra con la sua équipe, il funambolo con la legge e il partigiano contro il governo. In opposizione al chiacchiericcio mediatico, Gen_ di Gianluca Matarrese decide di scendere in campo, di mostrare le pratiche concrete, ma affida l’intera scena a un padre affettivo, trasformando questo film d'attivismo in un trattato sul buon governo, con tutti i limiti che un tale discorso può sollevare, da sinistra, in questo periodo storico.

Primo limite: rispondere a una crisi simbolica solo con il simbolico. Se la destra tenta di restringere il campo semantico delle parole, qui invece bisogna espandere, trovare nuove metafore: il fungo di cui non si distingue il genere; la ghianda che contiene l'embrione della quercia. I corpi compaiono, sì, ma in sequenza, confusi come la carta da parati di una sala d’attesa, ridotti a esempi dei casi più disparati che è chiamato a gestire il padre affettivo. È il suo verbo ad animare i corpi, non la regia, che anche quando li mostra nella loro nudità non coglie una transizione esistenziale, ma solo una narrativa, quella del film stesso.

Secondo limite: erigere barricate in difesa dell'esistente. I corpi presi in esame sono già riconosciuti dalla legge e il dottore li guida verso la terapia più adatta alle loro esigenze psico-fisiologiche. Ma qua e là affiorano limiti (di età e di nazionalità, sia per quanto riguarda la transizione di genere che per la fecondazione assistita) e sono proprio questi i nodi del dibattito, quelli su cui l’avversario preme per smantellare le pratiche in atto. Ma il film si accontenta di tracciare, seguendo il verbo del padre affettivo, le linee del giusto e dello sbagliato per consolidare una propria posizione.

Il conflitto, quando fa capolino, resta fuori campo, come voce incorporea: la premier che tuona alla radio; i rigidi genitori di un giovane che vuole transizionare. Non solo, lo totalizza, impone uno scontro valoriale tra campo e fuori campo. Se Daney vedeva in Histoires d'A, il primo film a documentare in presa in diretta un aborto, pratica allora illegale in Francia, l'apertura di uno “spazio politico” in cui poter immaginare un altro ordine medico, sociale, politico, Gen_ sembra costruire piuttosto uno “spazio ideologico”. Non per una fantomatica “ideologia gender”, ma perché ogni sforzo appare teso a definire una posizione giusta da mantenere.

Arroccato a protezione di un'ordine precostituito, il documentario riflette l'impotenza d'immaginazione politica che da almeno vent’anni paralizza la sinistra. Il rischio, se c'è, non è estetico, ma giuridico, e non riguarda il regista, bensì il medico, disposto a spingere al limite le pratiche in nome della loro giustezza. Così, nella parabola del buon governante che adempie al suo mandato prima di ritirarsi in natura, passando il testimone a un degno erede, la regia lascia intravedere un’unica forma di resistenza al fascismo: quel campo progressista che si limita a indorare di petalosità le sue pillole autoritarie.