“Chi sei tu?” è la domanda con cui Mamiya incalza le sue vittime che, perplesse, scandiscono il proprio nome o il ruolo sociale. “Chi sei tu?” “Fujiwara del quartier generale” e di nuovo: “Chi sei tu?”. Ciò che la rende estremamente inquietante è che nessuno sa davvero rispondere, perché come scriveva Freud “L’Io non è padrone in casa propria”. A generare terrore è il sospetto che dietro la sottile linea tratteggiata della memoria non vi sia altro che il nulla, un vuoto pronto ad inghiottire qualunque cosa.
È su questa base che Kiyoshi Kurosawa ha realizzato Cure che nel 1997 ha proiettato il regista giapponese tra i cineasti più importanti della storia e ha lanciato la sua carriera internazionale. Si tratta di un film che mescola numerosi generi scompigliandone le regole: un po’ thriller, un po’ giallo, ma soprattutto horror. Infatti Cure ha rivoluzionato il genere, aprendo la fruttuosa stagione del J-horror e diventando un punto di riferimento. Non sono mostri, fantasmi o serial killer a minacciare la tranquillità di Tokyo, ma un male intangibile radicato nel vivere quotidiano.
Takabe (Yakusho Koji) è un detective diviso tra il mondo poliziesco e quello domestico in cui si dedica amorevolmente alla moglie affetta dall’Alzheimer. Si trova a gestire uno strano caso di omicidi seriali le cui vittime sono sempre mutilate con una X che parte dalle carotidi e arriva fino al petto.
La particolarità è che gli assassini sono sempre diversi, sono spesso sconvolti e sostengono di non sapere per quale motivo abbiano commesso il delitto e di averlo compiuto come se fosse un’azione naturale. Il colpevole salta fuori in fretta: è Mamiya, uno strano ragazzo che non ricorda nemmeno il proprio nome. L’unico mistero è come sia riuscito a convincere individui pacifici a uccidere con una tale semplicità e per quale motivo.
È curioso come Yakusho Koji interpreti il ruolo dell’ispettore in altri due film di Kurosawa: il surreale Charisma (1999), e lo splendido Retribution (2006). In tutti e tre i casi si tratta di un ispettore che, senza clamore, finisce per essere travolto dagli eventi. Non incarna il detective come espressione archetipica della razionalità, ma una figura fragile e pulsionale che viene inghiottita dagli eventi. Takabe, all’inizio, appare come un uomo tutto d’un pezzo, affettuoso con la moglie, capace nel suo mestiere, ma basta poco per incrinare le sue certezze.
Kurosawa racconta di individui la cui esistenza è uno tormento sordo che tentano di ignorare, aggrappati a fatica ad un precipizio sotto il quale si apre il vuoto. La coscienza è dolorosa e quel vuoto sottostante è una tentazione fortissima. La decisione di restare appesi è sofferta e basta una leggera spinta per lasciarsi andare giù, come la fiammella dell’accendino di Mamiya, tanto impalpabile quanto capace di piegare come un fuscello le menti dei suoi “pazienti”.
È una cura, infatti, quella di Mamiya, un’originale seduta di terapia che mira allo svuotamento dell’interlocutore, al raggiungimento di una sorta di Nirvana. L’obiettivo è la sottrazione allo sforzo a favore di un inebriante stato di incoscienza: un traghettamento sereno verso un suicidio collettivo.
In Cure il regista giapponese definisce anche il suo stile, che da allora diviene sempre più codificato e riconoscibile. In particolare, al di là dei movimenti di macchina, in questo caso effettuati soprattutto con camera a mano e più di rado con il carrello, è interessante l’uso degli spazi che diventerà forse la sua firma più identificativa. Le inquadrature ritagliano porzioni di spazio sempre molto larghe, ma non c’è superficie che non racconti qualcosa, nulla è in campo per caso.
Gli spazi per Kurosawa sono una risorsa inestimabile che permettono di articolare le relazioni trai personaggi, accompagnandoli con i movimenti di macchina. Un esempio monumentale è l’incontro nella cella dell’ospedale psichiatrico tra Takabe e Mamiya. Quando l’ispettore fa irruzione nella stanza sembra non trovarlo, ma dopo qualche passo si volta e lo nota in una sorta di stanzetta secondario, incassata nella parete, seduto con la sua solita aria stralunata. Illuminati da luci di tonalità diverse, i due danno inizio al loro duello scambiandosi più volte di posizione, e tutto all’interno della stanza prende vita, alimentando una tensione crescente.
All’interno di spazi così larghi gli individui riducono le loro dimensioni, diventano corpi, marionette che eseguono meccanicamente delle azioni, dei segni in movimento, delle X tracciate su un cadavere. In Cure l’orrore sta tutto qui: terrorizza non nei suoi eleganti spargimenti di sangue, ma nella riduzione dell’individuo a corpo vuoto, nella rappresentazione tanto limpida quanto spaesante dell’innato desiderio umano per il nulla.