Il nuovo film di Paul Verhoeven, Elle, sta scatenando appassionati dibattiti, e – ora che è giunto finalmente in Italia – sembra spiazzare pubblico e critica. Ecco perché noi di Cinefilia Ritrovata intendiamo tornare più volte a parlarne. 

Michèle è una donna francese bella, colta e raffinata che dirige una casa di produzione di videogiochi. È separata, sta per diventare nonna e vive sola in una grande casa piena di alte finestre vetrate. Da una di queste un pomeriggio entra uno sconosciuto mascherato che la aggredisce e la violenta. La ricerca dell’identità del violentatore porterà Michèle a mettere in discussione se stessa e le relazioni con chi la circonda.

Elle – diminutivo di Michèle e pronome per l’intero universo femminile – è il nuovo film di Paul Verhoeven interpretato da Isabelle Huppert. In programmazione in questi giorni al Cinema Lumiere, è tratto dal romanzo francesce Oh… di Philippe Djian e ha ricevuto diversi prestigiosi riconoscimenti: Miglior film straniero ai Golden Globes 2017 e Miglior film francese ai César 2017. Isabel Huppert, candidata agli Oscar 2017 come miglior interprete femminile, si è poi aggiudicata il César come miglior attrice.

La prima scena del film si apre sull’aggressione, sui gemiti del violentatore, sulle urla della vittima e, curiosamente, sul gatto Marty che osserva lo stupro e subito dopo se ne va incurante. Lo sguardo del gatto “profondo e freddo”, come quello del gatto di Baudelaire, è in realtà lo stesso di Michèle sulla vita. Ed è lo stesso che Paul Verhoeven ci offre raccontandoci questa storia.

Michèle giorni dopo rimprovererà proprio al gatto di non aver cavato gli occhi al violentatore, di non averlo graffiato. Ma l’intero film sembra ruotare proprio intorno a questo sguardo animale e felino, freddo e disincantato. La donna dopo lo stupro decide di non denunciare il fatto alla Polizia confidando alla sua collega che la denuncia non potrà aiutarla: da piccola è stata protagonista involontaria in una triste vicenda che ha visto lei e il padre coinvolti in una serie di omicidi. La stessa Michèle pur essendo in questo caso vittima è nota alla gente come complice del padre e quindi a sua volta pubblicamente additata come carnefice. E Verhoeven gioca su questa speculare simmetria, su questa circolare inversione di ruoli che non cesserà fino alla fine – coinvolgendo addirittura il figlio – in una continua altalena di potere fra vittima e carnefice.

Forse proprio la presenza costante di violenza nella vita della donna – e costante anche nei film di Verhoeven da L’amore e il sangue fino a L’uomo senza ombra – apre la possibilità ad un mondo relazionale privo di sentimenti, contraddistinto da una forte mancanza sia di pietas latinamente intesa sia di compassione cristiana. Michèle non prova pietà nei confronti dell’anziana madre che non si arrende agli insulti del tempo. Non si intenerisce per il padre che sta morendo in carcere e non lo perdona. Non comprende la debolezza del figlio alle prese con la costruzione di una famiglia. Non risparmia dolore alla collega e umiliazioni ai ragazzi che lavorano per lei.

E questa coralità di personaggi fra loro così mal assortiti – coralità peraltro fonte di momenti comici, come la cena prenatalizia in cui l’anziana madre annuncia il matrimonio con il toy boy o lo scambio di identità dell’ex marito scrittore che gli costerà la perdita dell’amante o la dispersione delle ceneri della madre – è funzionale a mettere in evidenza che ogni relazione è malata. Quella fra genitori e figli, fra ex mariti ed ex mogli, fra questi e i nuovi amanti, fra vicini, fra colleghi. Nessuno si salva. Ma Verhoeven apre un piccolo spiraglio verso la fine, facendo pronunciare a Michèle una promessa. “Ho smesso di mentire” annuncia la donna al suo aguzzino, togliendosi forse lei stessa la maschera e la corazza da eroina (dei videogiochi?) e accettando di farsi salvare.

Dall’alto dei suoi insospettabili 78 anni Paul Verhoeven riesce a sparigliare di nuovo le carte dei cliché femminili e questa volta ci propone il corpo esile e sensuale della sessantaquatrenne Huppert come oggetto del desiderio (così come in Basic Instinct aveva dato dignità all’assenza di scrupoli morali attraverso una bella e giovane Sharon Stone). L’affascinante Isabelle Huppert infrange così il mito cinematografico di una sensualità temporizzata al dato anagrafico e ci regala un personaggio straordinario, incarnando una donna non più giovane ma ricca, elegante, potente e decisamente desiderabile anche agli occhi degli uomini più giovani.

Verhoeven insomma ci spiazza da più parti: ci fa saltare sulla poltrona del cinema assestando colpi di scena già visti, ci nega una visione sentimentale dei rapporti a cui siamo abituati e ci fa ridere della loro inconsistenza, ci disturba con immagini violente sovrapponendole direttamente a quelle dei videogiochi, ci fa ripensare a ruoli ingiustamente cristallizzati, ci regala un nuovo modello femminile di desiderio. Ci trascina fuori dal rassicurante recinto del politicamente corretto e del moralmente accettabile e alla fine ci conduce in un cimitero da dove ci saluta sornione.

Lorenza Govoni