Cenere e diamanti è tutto racchiuso nello spazio di una giornata. Inizia in un ambiente agreste lontano dalla città, con due uomini, il giovane Maciek e il più maturo Andrzej, incaricati di uccidere il segretario provinciale comunista, in arrivo su un auto che però ha a bordo due operai. Si sposta in città, dove il politico fa tappa per partecipare ad un banchetto (e per rintracciare il figlio) e Andrzej lascia a Maciek il compito di rimediare all’errore, che nel frattempo flirta con la barista Krystyna. Finisce all’alba dell’indomani, dopo una notte di rivelazioni esistenziali, con il sangue che sgorga dai petti trucidati dal piombo.

Malgrado si scalpiti nell’attesa di festeggiare la resa incondizionata della Germania, chi ricordando i bei tempi a Varsavia e chi cercando di riallacciare i rapporti forzatamente interrotti prima della tragedia, il film – complice anche la splendida fotografia molto nouvelle vague di Jerzy Wójcik – restituisce il brivido angosciante della guerra civile, il fatalismo delle azioni più grandi della vita, l’attesa dell’evento destabilizzante che aspira ad una pace impossibile se non impugnando un’arma. A differenza di quanto accadde nel cinema italiano, che nell’immediato dopoguerra fece subito i conti con le macerie morali e civili della guerra (per poi dimenticarsene poco dopo), Andrzej Wajda – certo anche per questioni anagrafiche – rielabora tredici anni dopo il dramma della sua generazione e rifonda il cinema polacco diventandone il cantore più aspro e meno compromesso.

Procedendo per simbolismi non gratuiti, che contribuiscono a rendere Cenere e diamanti un racconto in grado di parlare un linguaggio universale pur riferendosi ad una realtà ben specifica (dalla porta della chiesetta di campagna che si apre dopo l’omicidio passando per le fiamme sui bicchierini di vodka fino all’indimenticabile macchia scura sul lenzuolo bianco), Wajda compone l’amara e funesta trenodia al patriottismo che ha confuso i propri confini con quelli del nazionalismo, un disperato e severo canto nella prospettiva che il martirio sia quello di un’intera nazione anche laddove coinvolge i singoli di entrambe le barricate. Il senso del titolo sta tutto nell’iscrizione muraria letta dalla salvifica barista: “rimarranno cenere e caos soltanto / che nell’abisso con veemenza cade? / O rimarrà nella cenere un diamante, / mattino di vittoria immortale…”. E proprio al mattino, dopo la notte folgorata dal bagliore limpido del diamante Krystina, cade la vita di Maciek, predestinata ad un’immortalità che con la vittoria non ha più nulla a che fare.

Sempre dietro gli occhiali da sole, che lo difendono da un mondo di cui tutto conosce ma nulla comprende, c’è Zbigniw Cybulski, alter ego di Wajda già nei precedenti Generazione (1954) e I dannati di Varsavia  (’57), volto tra i più magnetici del cinema europeo del dopoguerra, morto un decennio dopo Cenere e diamanti, accrescendo il proprio status mitico già garantito dal caposaldo di Wajda.