Benché l’avventura esotica non sia un genere del tutto esaurito (che cos’è, d’altronde, Pirati dei Caraibi, se non una rilettura di quell’universo? Per tacere del pur isolato Vita di Pi), film come Il 7° viaggio di Sinbad sembrano davvero irripetibili, cinema della meraviglia che appartiene ad un’epoca spettacolare, ancora dominata da un sincero esercizio dello stupore. Che oggi, va da sé, finisce per trasformarsi nello sguardo tenero di noi contemporanei assuefatti al perfezionismo tecnico.
Naturalmente non si può né si deve liquidare la grande opera di Ray Harryhausen, autore degli effetti speciali che impreziosiscono il film di Nathan H. Juran, ex scenografo (si vede: l’interno della lampada è sublime). L’artista, in concerto con il produttore Charles Schneer, prende a pretesto una narrazione delle Mille e una notte per dare libero sfogo alla possibilità di creare ciclopi violenti, uccelli a due teste, draghi sputafuoco, fino ad un inquietante scheletro spadaccino che tornerà ne Gli argonauti (1963), quest’ultimo impegnato in un duello con il protagonista accompagnato le memorabili nacchere che spuntano a sorpresa nella partitura di Bernard Hermann.
Con più di un debito nei confronti de Il ladro di Bagdad (1940), altro lavoro fondato sulla collaborazione creativa tra produttore (il mitico Alexander Korda) ed autori degli effetti speciali, il film ripropone un immaginario arabo plasmato dalla fantasia hollywoodiana, una fuga esotica che alla pari di altre operazioni (le varie versioni di Kismet, dal muto a Vincente Minnelli, passando per William Dieterle) si diverte ad inventare un universo favolistico fatto di principesse, marinai, avventurieri, califfi, sultani, maghi ma che può fare a meno del popolo.
Non deve essere un caso se, a parte l’infido fattucchiere, i più vili della partita siano i carcerati a cui Sinbad concede il possibile riscatto della grande avventura per mare, come pure il fatto che a perire, nei modi più disparati, siano proprio gli uomini del volgo, quasi a voler sancire l’eroismo del marinaio e il buonsenso della principessa, che simbolicamente escono vittoriosi dalla caverna ma nei fatti vengono salvati proprio dall’equipaggio superstite. Ci si potrebbe spingere a reputarla una favola classista, ma sarebbe forse miope trattare così un’antica raccolta orientale, fondata sul trionfo dell’amore, dell’ingegno e del coraggio. Kitsch e popolare, trascinante e divertente, grande successo al botteghino, ispiratore di molti lavori affini, compreso l’italo-francese e assai più modesto Le avventure di Aladino (’62).