Pur tenendosi lontano da qualsiasi riferimento politico e sociale, L’uccello dalle piume di cristallo (uscito nelle sale nel febbraio del 1970, due mesi dopo la strage di Piazza Fontana) può essere considerato un film emblematico di un profondo cambiamento nella società italiana: la luce, la leggerezza e l’ottimismo degli anni Sessanta lasciano definitivamente spazio ad un nuovo decennio cupo, pesante e violento. Come la vera arte esprime ed anticipa i cambiamenti sociali, così il film di Argento, con le sue strade vuote e minacciose, la musica opprimente, la tensione, il sangue ed il terrore, rappresenta lo stato d’animo dell’Italia degli anni a venire.
Strepitoso esordio alla regia di Dario Argento che, come aveva fatto Sergio Leone con il western, consacra, rivoluzionandolo, un genere (il giallo all’italiana), trascinandolo nella modernità ed aprendo una strada percorsa da un gran numero di imitatori: non si contano i film gialli italiani degli anni Settanta con un animale nel titolo. Argento ripudia il padre artistico del genere, il Mario Bava di La ragazza che sapeva troppo e Sei donne per l’assassino (da cui pur apprende e prende molto), e uccide a colpi di rasoio, tra schizzi di sangue e pulsioni sessuali, superando quello stile edulcorato, preoccupato di non urtare lo spettatore, dei film gialli precedenti.
In questa prima opera del regista (a cui seguiranno Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio nella cosiddetta “trilogia degli animali”) è evidente l’influenza di Hitchcock (da Musante che assiste impotente ad un crimine − rimando a La finestra sul cortile − al cameo di Reggie Nalder, il killer de L’uomo che sapeva troppo) ma anche di Antonioni (il quadro naif che nasconde la verità come la fotografia di Blow-up) e di Sergio Leone (nei primissimi piani). Ma Argento, che è stato anche critico cinematografico, rielabora quanto ha assimilato, dando vita ad un cinema personale ed innovativo, che supera le barriere tra cinema di genere e d’autore.
È fenomenale come il regista riesca ad instillare una sensazione, a tratti travolgente, di angoscia e paura utilizzando la tecnica cinematografica (in particolare la soggettiva e lo zoom), ma anche gli oggetti e gli spazi (dalle statue nella galleria d’arte alle strade deserte, da un quadro naif agli angusti interni di una casa), con il contributo essenziale della fotografia dai colori accesi e saturi di Vittorio Storaro (straordinario il lavoro sul contrasto luce-buio) e soprattutto della musica di Ennio Morricone, colonna portante (oltre che sonora) del film.
Le composizioni del Maestro, uniscono jazz sperimentale, percussioni, gemiti e vocalizzi in una partitura dissonante e cacofonica, senza limitarsi a commentare le immagini ma diventandone assoluta protagonista, ancora più dei personaggi, indispensabile alla costruzione del modo ansiogeno di Argento, nel quale una filastrocca diventa agghiacciante in virtù del contrasto tra gioco fanciullesco e l’atmosfera di violenza e morte, quasi un ossimoro che assomiglia a ciò che fa Kubrick con Singing in the Rain durante il pestaggio in Arancia Meccanica.