A parlare di scrittori e cinema, vien da pensare per prima cosa (e quasi solamente) al fenomeno dell’adattamento: quel passaggio di una storia dalla pagina scritta allo schermo, da un medium all’altro, che tanto piace perché poi si può discutere su quale ci sia piaciuta di più, sulle differenze o le somiglianze fra le due, e così all’infinito. Ma la rassegna dedicata a Colette durante quest’intera settimana di Cinema Ritrovato 2017 ha dimostrato che le cose, per fortuna, sono molto più complicate.
Siamo abituati a pensare a Colette in due modi: come scrittrice, diventata famosa soprattutto per la sua saga dedicata all’alter ego Claudine, e come figura irriverente che ha proposto un’immagine femminile fuori dagli schemi non solo attraverso la parola letteraria, bensì anche con il suo personaggio pubblico, proseguendo quel binomio arte/vita già iniziato dalle proto-dive fra Otto-Novecento (la Contessa di Castiglione, la Marchesa Casati fra le altre).
Eppure, attraverso un percorso cinematografico pensato da Émile Cauquy e Mariann Lewinski, supportato da una ricca documentazione (fra cui ricordiamo il saggio capitale su Colette e il cinema di Paola Palma, La Vagabonda dello schermo, presentato in sala), emerge una figura poliedrica, complessissima, che ha attraversato il cinema da angolazioni ancor più impensabili per una donna in un periodo storico che guardava all’emancipazione femminile con un non velato sospetto.
Più di trenta opere (fra frammenti, corti e lunghi) sono state presentate durante l’arco della settimana, ed hanno consentito di esplorare anche i mestieri del cinema da una prospettiva inedita: Colette ha fatto la sceneggiatrice, ha scritto dialoghi, ha composto sottotitoli, ha fornito il soggetto, ma ha anche scritto di cinema su giornali e riviste, inserendosi come voce critica all’interno di quella consapevolezza cinefila che andava prendendo forma nella cultura francese primo-novecentesca.
Se volessimo ritrovare un fil rouge all’interno di tutti i film all’insegna del nome di Colette, questo non potrebbe che essere l’espressione e la rappresentazione di una femminilità trasgressiva, che rifiuta quasi sempre di configurarsi all'interno del regime borghese del matrimonio o dei ruoli sociali più stereotipati: si tratta di donne (molto spesso messe in scena da altrettante registe) che rivendicano un’autonomia di pensiero e di azione tale da farle considerare strane, “freak” o “queer”.
Così è la circense anticonformista protagonista di Le Friquet (1913), messa in film della commedia di Willy (marito di Colette), interpretata da Polaire, attrice e cantante così simile alla scrittrice francese che ne sembra quasi un doppio. Ma della stessa pasta è anche Puck, il folletto femminile che anima Il lago delle vergini (Lac aux dames, 1934), adattamento da un romanzo di Vicky Baum per il quale Colette scrisse i dialoghi: la giovane ragazza, che dimora isolata in una sorta di cronotopo fantastico dell’altra riva del lago (sulla quale si snodano amori e contrasti dell’istruttore di nuoto tombeur des femmes), vive in uno stato di libertà assoluta, si veste con i pantaloni, gioca e corre come un maschiaccio, ma conosce meglio di chiunque altro il cuore umano, al di là regole e dei protocolli dell’alta società, di cui pur fa parte.
“Queer” sono le collegiali di Ragazze in Uniforme (Mädchen in Uniform, 1931), film interamente al femminile la cui associazione al nome di Colette garantì al film un grande successo all’interno del pubblico francese: proprio per la vicinanza fra l’argomento del film e i romanzi scolastici di Claudine (in cui non mancano i riferimenti ad atmosfere saffiche), a Colette fu chiesto di scrivere i sottotitoli, garantendo pubblicità e apprezzamento ad un film notevolissimo sul piano estetico e tematico.
Una diva sui generis è la splendida Mae West che interpreta il ruolo di Lou in Lady Lou (She Done Him Wrong, 1933), film della rassegna che esalta il ruolo fondamentale di Colette di voce e critica della cultura del suo tempo: su Le Journal due articoli di mano della scrittrice (raccolti, insieme a tutti gli interventi cinematografici di Colette, nell’altra monografia di Paola Palma, Colette. Una scrittrice al cinema) esaltano la sfrontatezza di questa donna dalla lingua mordace che elude tutte le regole non scritte dei ruoli femminili al cinema, perché “non si sposa nel finale, non muore, né prende la strada dell’esilio, né contempla con malinconia, in uno specchio con la cornice d’argento del gusto più funesto, la sua giovinezza in declino”.
E per finire, c’è l’ingenuità solo apparente di Gigi nell’omonimo film (1949) tratto dalla novella di Colette – e arriviamo così all’adattamento – per la regia di un’altra donna, Jacqueline Audry. La conclusione, che potrebbe sembrare accomodante verso la mentalità matrimonial-borghese, può essere letta tuttavia in una chiave diversa. L’educazione tutta al femminile che la ragazzina riceve nell’ordine da nonna, zia e madre - tutte non sposate -, se da un lato esalta un possibile – e spassoso – matriarcato, dall’altro profila l’ineluttabilità del destino femminile dell’epoca, in cui per poter vivere una donna deve farsi mantenere, o come moglie o come amante. L’iniziale rifiuto di Gigi ad assecondare un possibile futuro da cocotte rivela in realtà una consapevolezza del proprio valore, e la volontà di non dipendere esclusivamente dal piacere di un uomo che potrebbe mutare di segno inaspettatamente. Se Gigi cede, lo fa solo parzialmente, e ironizzando inconsciamente (ecco la volontà di scrivere il proprio nome sullo specchio del ristorante) sull’ambiente mondano: ed è a questo punto che arriva la proposta di matrimonio, non frutto di una strategia seduttiva, non passivo abbandonarsi della donna alla volontà maschile, ma come ottenimento di un rispetto sincero (è lui a guardarla adorante nel corso del film) in quanto donna con una piena dignità.
Anche il matrimonio, pare suggerirci Colette, può essere femminista.