Nei ventisette minuti dell'esordio Six Shooter (2004), accolto con l'Oscar al miglior cortometraggio, c'è tutto quello che Martin McDonagh mostrerà in seguito, fino al recente exploit di Tre Manifesti ad Ebbing, Missouri. Il tono sempre in bilico tra farsa e tragedia, l'attenzione per il casting e la direzione degli attori, la violenza con cui volano piombo e pugni ma soprattutto parole. Fin dall'esordio si rivela l'inclinazione del regista anglo-irlandese verso una teatralità densa e snervante (spazi chiusi, ritmo e tensione in mano ai dialoghi); niente di che stupirsi trattandosi di un drammaturgo fra i più rispettati della sua generazione. Quel che colpisce è semmai la misura cinematografica a cui McDonagh sa sempre attenersi, la sobrietà di una regia in grado di garantire le sceneggiature dal rischio di gratuità e dispiegarne il pieno potenziale di bombe ad orologeria.
Se dovessimo isolare un elemento che identifichi senza possibilità di errore il suo cinema, però, non potremmo accontentarci di nessuno di questi. Ripercorsa la breve lista non troviamo niente che non possa essere detto di Tarantino o dei fratelli Coen; cos'è che lo rende davvero inconfondibile? Una buona risposta potrebbe essere 'l'uso dell'ambiente'. Che è insieme risorsa narrativa, occasione per la rielaborazione di modelli letterari/cinematografici e terreno di conflitto morale. I suoi film sono parabole cristiane di discesa agli inferi e redenzione; i suoi personaggi una sfilza di disillusi senza più fede, amore, amicizia, immersi come in un incubo nel teatro vuoto dei loro ideali; il borgo medievale belga di In Bruges (2009) che per i killer sentimentali Ralph Fiennes e Brendan Gleesan sembrava "uscito da una fiaba" o la cittadina rurale di Ebbing, non a caso immaginaria, non a caso presentataci immersa nella nebbia come un sogno, vecchio west dove il sole splendeva alto e ora immerso nel torpore post-crepuscolare di Fargo e Non è un paese per vecchi.
Ma Six Shooter, in apparenza (fin dal titolo che indica un particolare tipo di revolver a sei colpi) il film più chiuso e cinico della sua carriera, non rimane a piangere con le mani in mano; il suo sogno interrotto, la campagna irlandese color smeraldo con le greggi e i contadini deturpata a colpi di umorismo nero e storie di mucche che esplodono, lo attraversa sfrecciando a bordo di un treno. Un treno i cui passeggeri sono tutti colpevoli come quelli dell'Orient Express, solo che nessuno di loro ha fatto nulla. Per McDonagh a doversi redimere non è tanto chi fa il male quanto chi, essendone stato testimone impotente, si estranea dal mondo e dai rapporti interpersonali fino a dichiarare lo stato di guerra. Se gli indifesi (bambini, animali) vengono uccisi, se il mondo intero ha perso la sua innocenza, ogni accusa è anche un'autoaccusa. E per redimere il mondo bisogna redimere se stessi. Alla fine di Six Shooter assistiamo a un fallito tentativo di suicidio. Prima c'erano state cinque morti, mostrate o raccontate. La sesta pallottola manca il bersaglio: un treno in corsa è una possibilità.
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24 Gennaio 2018, Lorenzo Meloni
Il cinema di Martin McDonagh: “Six Shooter”
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