Tra la Madonna che sorvola le macerie aquilane di Loro 2 e la tragica metafora cristologica nel finale di Dogman, attraverso la misericordia evocata da Il fulgore di Dony (ma in generale tutto l’ultimo, stanco Pupi Avati televisivo) fino alle troppe domande a prima vista enigmatiche che affollano la serie Il miracolo: che – improvvisamente, inaspettatamente – si stia arando un terreno fertile per dialogare col sacro in grazia di Dio? E mettiamo dentro anche l’imminente Tito e gli alieni, che dentro una commovente favola spielberghiana esplora l’altrove dell’ignoto spazio profondo per trovare negli incontri ravvicinati le risposte trascendentali ai dolori terreni.
Un diverso senso del meraviglioso domina Lazzaro felice, che costeggia il fantasy nel cuore del netto salto temporale tra le due parti del racconto senza la pretesa di spiegare il motivo di un gesto così radicale. Al pari di Tito, Alice Rohrwacher – che gira in pellicola e si conferma capace di raffinatissime intuizioni: una per tutte, l’ombra sghemba di Tancredi sulle rocce che parla col volto in primo piano di Lazzaro – vede nel cinema del passato un irrinunciabile repertorio a cui riferirsi con consapevolezza, intelligenza, ammirazione (citiamo i palesi numi tutelari a vario titolo: Ermanno Olmi, Sergio Citti, i fratelli Taviani, Pier Paolo Pasolini…).
Oggetto bifido, strambo, sbilenco, il terzo opus della regista sublima – come Garrone – un fatto di cronaca degli anni Ottanta e lavora ancora sulle inenarrabili meraviglie dei corpi celesti, imponendosi per ambizione e densità nel discorso sul sacro. Che magari è solo una suggestione di chi scrive, eppure appare così sottile da risultare davvero centrale. D’altro canto quale dovrebbe mai essere la prima impressione di fronte ad un film che elegge ad eroe titolare un personaggio dal nome tanto eclatante quanto paradigmatico? Ricordiamo che il Lazzaro biblico, resuscitato da Gesù, appare nei Vangeli per testimoniare il miracolo e più avanti per annunciarne l’imminente omicidio su mandato dei Sommi Sacerdoti, in quanto discepolo del Messia. Poi basta. Più che un personaggio, quasi una funzione che innesca – o perlomeno sollecita – il destino del protagonista, cioè colui che gli ha ridato vita.
Novello Candido incapace di crudeltà, il Lazzaro di Rohrwacher è qui il protagonista, testimone di spiazzante ingenuità, ma delle sue due vite non c’è niente di memorabile da renderlo motore o fautore di un cambiamento. Si dirà: cosa c’è di più memorabile della possibilità di una resurrezione? Difficile ribattere. Tuttavia il film ci chiede di accettare quel che accade senza poi emanciparsi dalla sua dimensione fantasmagorica, convinto che l’idea di una rinascita sia talmente complessa da non richiedere paradossalmente alcuna interpretazione al di là del fatto in sé. Forse la chiave sta nell’idea che ad incarnare il miracolo sia qualcuno del tutto ininfluente al ciclo dell’ipotetica storia secondo la sua autrice, che nel solco di Elsa Morante sostiene l’idea di un odierno “Secondo medioevo”.
Congettura discutibile, plausibile nella prospettiva dell’apologo che vorrebbe essere – trovando squarci d’ironia prima nei caratteri manichei della malvagia padrona e poi nei facili scetticismi degli anziani ex mezzadri (comunque: gran belle facce) – ma appesantita dentro un faticoso benché affascinante discorso a tesi, dove la limpidezza naturalistica esaltata dall’immagine nasconde l’inquietudine di una sfiducia nel progresso rivelatosi inadeguato alla prova dell’impossibile riscatto dei subalterni. Il mistero, in fondo, resta tutto nel senso del protagonista, un puro che non può cambiare il mondo, dagli orizzonti limitati ma che sconfinano nell’inaccessibile: sotto la mezzadria fuori dal tempo, servo che non si fa domande e si lascia sfruttare; nell’oggi metropolitano, ancora servo malgrado non in modo ufficiale e nondimeno disposto ottusamente al sacrificio per il padrone, attivando così un’altra possibile rinascita. Benedetta dal lupo, ennesimo simbolo di un’ostica e disorientante allegoria senza l’incanto di un vero stupore.