Sono passati più di 60 anni (61 per l’esattezza, proprio quest’anno) da quella mitica decima edizione del Festival di Cannes che vide William Wyler vincere la Palma d’oro con La legge del Signore, ma che probabilmente oggi è maggiormente ricordata come la volta in cui Ingmar Bergman presentò il suo Medioevo surreale, grottesco ed epico insieme, in quello che sarebbe diventato il suo primo enorme successo: Il settimo sigillo. Tratto dal testo teatrale Pittura sul legno, scritto dallo stesso Bergman nel 1955 e del quale il film è un’emanazione, questo dramma dalla definizione esaustiva impossibile, in quanto trascende i generi e le interpretazioni e diventa oggetto a sé stante, irripetibile ed unico, detiene probabilmente il primo posto tra i film che fanno dell’atmosfera la vera protagonista. È un racconto tormentato, cupo, pieno di epifanie ed angosce quello del nobile cavaliere Antonius Block, al cui ritorno dalle crociate in una Danimarca dilaniata dalla peste ad attenderlo c’è la Morte. Non la morte in senso astratto, ma proprio LA Morte, personificata in un oscuro figuro incappucciato con tanto di mantello nero, come vuole la tradizione iconografica medievale.
E a questo punto arriva il colpo di teatro dell’assurdo che nessuno si aspetta: per non farsi portare via, il cavaliere sfida la Morte ad una partita a scacchi. La scena è di una tale potenza immaginifica da essere entrata nell’immaginario collettivo senza passare per il suo effettivo consumo: non tutti hanno visto Il settimo sigillo ma tutti la conoscono poiché innumerevolmente citata e parodiata in declinazioni che investono il campo dell’audiovisivo tout court, dal cinema alla televisione. Dal memorabile finale di Amore e guerra di Woody Allen ad un momento esilarante nel quarto episodio della prima stagione di Scrubs di Bill Lawrence.
Ma la deflagrante e del tutto inaspettata entrata a gamba tesa nella cultura pop da parte di quel fotogramma, di quel fantastico fatto senza effetti speciali ma sorretto solo dalla forza di un testo teatrale solidissimo e da una messa in scena onirica e crepuscolare, non è che le fondamenta di un ragionamento esistenziale con ambizioni enormi. Il cavaliere Antonius Blok incarna una metafora universale, possente e fragile, della condizione umana e del rapporto con Dio. Un Dio pronto a far risuonare le trombe dell’Apocalisse, come ci dice l’incipit del film (citazione biblica diretta), dopo l’apertura di quel settimo sigillo a cui il titolo fa riferimento. La partita a scacchi è un escamotage da parte di Blok per temporeggiare, per ritardare il proprio ineluttabile destino e poter espiare errori e colpe. Concetto, quello della redenzione, alla base dell’intera filmografia bergmaniana e di quell’altro suo capolavoro di quello stesso anno: l’intenso e toccante Il posto delle fragole.
Come il ricordo indefinito di un sogno, il ricordo che cerchiamo di afferrare prima che scompaia del tutto tra il sonno e la veglia, Il settimo sigillo emerge dalle nostre più recondite paure, quelle che non sapevamo di avere e ci pone dinnanzi all’inadempienza umana nel non saper rispondere a domande molto più grandi di noi. Ma al tempo stesso evidenzia la nostra virtù, che sta proprio nel porci tali domande, nel mettere il dubbio al centro della nostra infinita ricerca.
Nel 1957 a Cannes, proprio quella volta lì, con Il settimo sigillo Bergman vinse il Premio Speciale della Giuria in ex aequo con I dannati di Varsavia di Andrzej Wajda. E oggi sappiamo che era solo l’inizio.