Sono passati 50 anni dall’uscita in sala di C’era una volta il West, quinta fatica di Sergio Leone che in cuor suo avrebbe voluto chiudere con il western e dedicarsi a quel progetto che poi diverrà C’era una volta in America, ma che fu quasi costretto a realizzarne un ultimo (Giù la testa non è propriamente ascrivibile difatti al genere, per stessa dichiarazione di Leone), inaugurando la cosiddetta “Trilogia del tempo”. E il cinema non può che sentirsi in debito verso i produttori “tiranni” che vollero una volta di più cavalcare l’onda del successo di questo genere che Leone è stato capace di reinventare.
Giuseppe Tornatore in un'intervista ha dichiarato che "dalla scomparsa di Sergio Leone, la cosa più importante, della quale più si sente la mancanza nel cinema italiano, è il pensare in grande” e C’era una volta il West ne sembra essere la dimostrazione. Un racconto che più volte è stato avvicinato ai poemi omerici per epicità, una narrazione di grandissimo respiro che si pone l’obiettivo di raccontare la fine di un’epoca, simboleggiata dalla corsa della locomotiva, l’avvento del progresso che in un attimo spazzerà via cavalli e carrozze e cambierà irreversibilmente il mondo come lo conoscevano cowboy e pistoleri del Far West.
Il contributo di Ennio Morricone è sempre stato un fattore di primaria importanza nel cinema di Leone: le sue musiche venivano scritte prima dell’inizio della lavorazione così da permettere al regista romano di utilizzarle durante i ciack, aiutando gli attori a entrare nel personaggio e nell’atmosfera della narrazione. Leone definiva il compositore, “il migliore sceneggiatore dei suoi film”, proprio perché capace di costruire temi differenti per ogni personaggio, stratificati e declinabili secondo le varie esigenze filmiche e che in qualche modo racchiudono in sé caratteristiche riconducibili ai personaggi e a tutto quello che questi vogliono simboleggiare.
Nel caso in oggetto, il tema di Jill è caratterizzato da un “andamento grandioso” ed esattamente come Jill (e l’America) guarda al futuro, al cambiamento, a una nuova forma. Quello di Armonica, invece, riguarda due personaggi (lo stesso Armonica e il villain Frank) ed è legato a doppio filo con il concetto di vendetta, trasmette una sensazione di pericolo, si lega al passato, alla violenza gratuita e ingiustificata che uomini come Frank hanno perpetrato sadicamente e che ora stanno per pagare. Il terzo tema è quello di Cheyenne, più ironico e giocoso, così come è la natura del personaggio. Al brano è legato un aneddoto curioso: Morricone non riusciva a capire a fondo la natura del personaggio e tutto quello che componeva non soddisfaceva l’esigentissimo Leone, il quale, per far comprendere precisamente al musicista cosa volesse, paragonò il bandito al Biagio del film Disney Lilli e il vagabondo. Solo in quel momento Morricone cominciò a comporre il leitmotiv del personaggio-simbolo di tutte le contraddizioni americane.
Oltre alle composizioni orchestrali, vale la pena ricordare il grande lavoro sul sonoro: la sequenza iniziale è una lezione di cinema, una sinfonia di rumori che conferiscono ritmo alla narrazione e contribuiscono a creare quell’atmosfera di suspense che precede l’arrivo di Armonica. L’impianto sonoro non scompare mai, punteggiando l’intera pellicola e favorendo l’immersione spettatoriale nell’universo filmico. Su di un’opera di tale spessore tanto è stato detto e tanto ci sarebbe ancora da dire, ma forse è meglio ammirarla una volta di più e rendere grazie a Sergio Leone per il grande contributo dato alla settima arte.