Che cosa resta oggi di Cabaret? Tante parole sono state spese per definire quell’inquietudine che è diventata poi un topos del cinema nordamericano degli anni Settanta. Un decennio segnato dalla disillusione in cui anche il musical si sveglia, anzi − per usare le parole di Franco La Polla − “il sogno è sfumato, la (supposta) realtà preme alle porte”.
Gli occhi si aprono dunque su una realtà connotata storicamente (come nel musical di Bob Fosse), ma che ci appare sempre filtrata attraverso stilemi iconografici e ideologici propri del sogno. Un mondo da guardare con occhi completamente chiusi, come direbbe Kubrick, poiché il disincanto – privato dei colori sgargianti dell’epoca d’oro dei musical – è manifesto e a tratti perturbante. Tuttavia, adattando il famoso musical di John Kander e Fred Ebb (ispirato a sua volta dalla pièce teatrale di John Van Druten), quel geniale e cinico uomo di spettacolo che era Fosse non mirava a ricostruire in modo ruffiano una realtà storica attraverso la lente della disillusione.
In Cabaret l’inquietudine della Germania di Weimar perde qualsiasi tipo di connotato storico, riflettendosi sulla gestualità, i costumi ed il trucco dei personaggi all’interno del Kit-Kat, in quella che è a tutti gli effetti una rinuncia alla “supposta realtà” (come direbbe La Polla) a favore di un sogno meravigliosamente grottesco che si replica sempre uguale a se stesso, come sembra suggerire il maestro di cerimonie (Joel Grey). Un sogno che, allo stesso tempo, è uno slancio di disperata vitalità in cui Brian tuttavia non si rispecchia. In questo senso il film è spaccato a metà: quello che accade dentro il cabaret e quello che accade fuori. Un dualismo incarnato dall’inquieta figura di Sally Bowles, che preferisce al grigiore del mondo esterno l’altrettanto cupo ma pulsante di vitalità mondo del cabaret.
Basta porre a confronto Tomorrow Belongs to Me (l’unica canzone del musical dedicata alla tematica dell’insorgere del nazismo) e il resto dei pezzi cantati che trovano nel cabaret il loro luogo d’elezione. Le celebri sequenze musicali illuminate da luci glaciali non solo sono il perfetto contrappunto dell’amore infelice dei protagonisti, ma sottolineano la diversità tra il mondo esterno e il cabaret, trovando in Liza Minnelli (indimenticabile il suo numero Money, insieme a Joel Grey) un’interprete grandiosa. Tra pose provocanti (Mein Herr) e mantra sentimentali (Maybe This Time), la Minnelli raccoglie e fa sua l’eredità di famiglia, dicendoci con il numero finale di Cabaret che quanto accade sul palcoscenico forse è anche più reale della vita stessa. Dunque “life is a cabaret”: un eterno, grottesco, meraviglioso ritorno dell’uguale.