Dopo quarant’anni, Grease si conferma ancora pietra miliare del cinema musicale hollywoodiano, prodotto di fascino e richiamo per un pubblico ampio e trans-generazionale, anticipatore della cultura libertaria e anarcoide dei college movie che trova nel coevo Animal House l’apripista ufficiale del filone.
Più dell’omonimo musical teatrale del 1971, l’adattamento cinematografico a cura di Randal Kleiser infrange gli schemi, facendo solo in apparenza del film una nostalgica ricostruzione retrò, dimostrandosi invece – in linea con la tendenza comune al cinema statunitense del tempo, da Arthur Penn a Sidney Pollack passando per Peter Bogdanovich e George Lucas – una rilettura più critica che apologetica del passato nazionale, in cui rintracciare i sentori allora non colti della condizione presente.
Risulterebbe perciò riduttivo leggere Grease come uno spensierato teen movie, a base di feste scolastiche e pruriginose diatribe tra giovani machi impomatati e le loro promettenti controparti femminili. A ben guardare, infatti, proprio l’ossessione sessuale dei personaggi viene a rompere gli schemi preposti del genere. Abbandonati i complessi esistenziali de Il selvaggio e Gioventù bruciata (richiamati dall’abbigliamento dei personaggi quanto dalla passione per i motori, con tanto di gara di velocità a sancire il più “uomo” di tutti), Kleiser identifica la manifestazione di una naturale pulsione erotica adolescenziale come elemento forte della generazione anni Cinquanta. Lontani dagli asettici ritratti à la Happy Days che la pellicola evidentemente parodia, Danny Zuko e compagnia sono l’incarnazione di una sfrontata giovinezza che comunica disinibita i propri turbamenti corporali. Eterni bambini, vivono la loro esistenza come in un immenso luna park, sollevati dalle problematiche degli adulti – del tutto assenti, fatta eccezione per insegnanti vecchi e un po’ tonti – quasi si volesse preservarne la purezza infantile. In realtà però l’innocenza puerile è persa da tempo, come dimostrano le ormai vistose protuberanze delle ragazze concupite dagli espliciti coetanei a loro volta reciproci oggetti di inconfessabili brame, un desiderio che si incanala nel rock ‘n’ roll, espressione vitale di trascinante fisicità e del più libero scatenamento libidico.
Che sia un riferimento diretto (la verginità di Sandy in Look at Me, I’m Sandra Dee o la supposta gravidanza di Rizzo in There Are Worse Things I Could Do) o implicito (le gesta seduttive riportate da Zuko in Summer Nights come le movenze allusive sulle note di Born to Hand Jive alla gara di ballo), l’esternazione erotica fa dei protagonisti figure ben più vicine ai coetanei sessantottini che ai loro fratelli maggiori. Non a caso, smessi i panni della timorata ragazzina di Hopelessly Devoted to You, il personaggio di Olivia Newton-John appare a fine film una Sandra Dee rinata esplosiva pin-up, non più restia a mostrare un’ormai maturata femminilità né probabilmente di concedersi – liberata dalla castrante mentalità originaria – al suo spasimante Danny cantando You’re the One That I Want.
Ma non è tutto oro quello che luccica. Il perbenismo della middle class finisce per coinvolgerne anche i figli, che decantano ingenuamente le aspettative di un radioso futuro comune (We Go Together) accompagnando la coppia protagonista verso un finale volutamente posticcio, implicito riferimento alla cruda realtà del Vietnam il cui disarmante sbandamento generazionale, solo qualche mese prima, era stato portato sullo schermo al grido disilluso di Stayin’ Alive ne La febbre del sabato sera.
Lapo Gresleri – Leitmovie