All’indomani della morte di Carlo Vanzina, anche gli osservatori più scettici stanno riscoprendo i molteplici percorsi dentro la sua sterminata filmografia, individuando generi, occorrenze, ricalchi, trascurati legami interni. In questo senso c’è davvero una continuità col papà, Steno, la cui quarantennale carriera presenta inesauribili tragitti, tante possibili rotte. Per esempio: potremmo dire che I tartassati è la migliore delle sue commedie di costume, considerando un filone che comprende, tra le più riuscite, Un giorno in pretura, La patata bollente o La poliziotta.
Al contempo è un prodotto segnala una circolarità tematica, mai più ritrovata, con i primi film diretti assieme a Mario Monicelli e interpretati da Totò, dove la dimensione stralunata del comico aderisce genialmente al tessuto sociale del dopoguerra: Totò cerca casa ma soprattutto a Guardie e ladri, di cui I tartassati è una sorta di cripto-remake aggiornato al boom economico, ben rappresentato dal grande negozio del cavalier Torquato Pezzella (l’onomastica di Totò non delude mai). Per di più c’è Aldo Fabrizi: non più il brigadiere che deve rincorrere il ladro tra le macerie romane, ma il finanziere che occupa l’ufficio dell’evasore. La coppia avrebbe poi sviluppato ancora la dicotomia ricco/povero, declinata ora nei termini di benestante/statale, in Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi, focalizzandosi però sul versante privato.
Per quanto lo schema e le caratteristiche siano in superficie ascrivibili alla commedia all’italiana, siamo, piuttosto, in una fase di transizione. Da I morti non pagano le tasse a La cambiale passando per Accidenti alle tasse!! (sceneggiato da Steno e Monicelli) e La banda degli onesti, le ossessioni economiche e fiscali affiorano qua e là nella commedia popolare degli anni Cinquanta che anticipa quella del benessere dei Sessanta, fatta di lunghe vacanze, grandi malinconie e disponibilità economiche magari eccessive ma tutto sommato messe al sicuro dalla piccola o grande elusione.
Qui, sui titoli di testa, una voce tuonante declina il verbo “pagare” arrivando infine ad un “essi riscuotono!” che ammicca all’insofferenza antistatale del pubblico e si riallaccia all’“e io pago!” reso immortale proprio da Totò in 47 morto che parla. In realtà, Steno ha spesso dissimulato sotto un presunto populismo anticasta la consapevolezza che la prima responsabilità sia da rilevare tra i pari, evitando di attaccare il bersaglio più facile, cioè lo Stato. Ci è chiaro da subito che il cavalier Pezzella è un mariuolo, ma anche che il vero approfittatore è il consulente fiscale; e ha ragione il rispettabile maresciallo Topponi a pretendere il maltolto. Altro che qualunquismo, qui c’è un senso civico che tende infine al solidarismo.
Aspetto decisivo è la scelta di Totò (ben quattordici le collaborazioni con Steno: altro filone da analizzare), che può finalmente muoversi in una storia vera: se il Totò antologizzato post mortem e sparso nel serbatoio di schegge di YouTube fa capire quanto il suo cinema sia fondato sull’autonomia dello sketch, in continuità con l’avanspettacolo, I tartassati costituisce una delle rare occasioni in cui può contare su un’impalcatura solida, certo retta su frammenti gustosi anche nella fruizione indipendente, ma dall’irresistibile fluidità.
La maschera della fame, reduce da due guerre e alfiere di una miseria che valica i secoli, presta il suo corpo alla scoperta del benessere, reinventandosi borghese disposto a tutto per non retrocedere all’antica indigenza. Dagli spaghetti divorati per denutrizione in Miseria e nobiltà passiamo al fagiano rifiutato per terrorizzata inappetenza. In fondo, il film racconta di un uomo dedito al disprezzo delle regole, nostalgico a seconda dell’opportunismo (“a noi!”), spaventato dal declassamento, che capisce di dover cambiare registro: una redenzione culturale attraverso la disavventura fiscale.