Un documentario falso realizzato utilizzando quasi solo materiale d’archivio vero, una storia d’amore falsa interpretata da attori (Woody Allen e Mia Farrow) che stanno vivendo una relazione vera, un fenomeno falso analizzato da intellettuali veri (Susan Sontag, Irving Howe, Saul Bellow e Bruno Bettleheim), una parabola falsa (di un uomo che passa dal successo e dal consenso unanime all’essere considerato un mostro) che assomiglia molto a quella vera di Woody Allen (suo malgrado preveggente, in attesa di un colpo di teatro per riconquistare, come riesce a Zelig, l’apprezzamento generale).
Il rapporto tra vero e falso ed il gioco pericoloso della manipolazione della realtà (con impliciti riferimenti che arrivano fino ai filmati di propaganda nazisti) sono tra gli elementi di Zelig, mockumentary, girato da Allen come un cinegiornale in bianco e nero, sulla vita di Leonard Zelig, ebreo americano diventato famoso in tutto il mondo alla fine degli anni venti a causa di una sindrome che lo portava ad assumere sembianze e identità simili alle persone che di volta in volta lo circondavano.
Ma Zelig, come il suo protagonista, è tante cose insieme. Innanzitutto è una divertentissima commedia, con alcune geniali battute fulminanti e con un effetto comico che nasce dal contrasto tra contenuti demenziali e l’estrema serietà formale. Poi è una celebrazione amara di un periodo fervido e vitale che, come l’orchestra del Titanic, festeggiava la vita andando inconsapevolmente incontro alla morte, sulla soglia dell’orrore della Seconda Guerra Mondiale. F. Scott Fitzgerald e il Tip Tap, l’affermarsi della psicanalisi e Charlie Chaplin, la nascita della società di massa e Babe Ruth, il nazismo e Josephine Baker: lo zenit ed il nadir della civiltà umana racchiuso in pochi anni.
Ma è soprattutto una parossistica rappresentazione in chiave satirica di un male ancora attualissimo: il conformismo, di cui il protagonista è il campione assoluto, così bisognoso di essere accettato da perdere la sua identità per assumere quella dell’interlocutore. Ritrovare Leonard Zelig, alla fine del film, ad un’adunata nazista in cui sta parlando Hitler è il perfetto punto d’arrivo del suo percorso, perché immergersi nella massa e nell’anonimato del totalitarismo è, ci indica Allen, l’approdo finale di ogni conformismo.
Ad arricchire ed a rendere credibile il film c’è un grande lavoro sul suono (riproducendo l’effetto rovinato e gracchiante di una vecchia registrazione per dare maggiore autenticità) ed una strepitosa colonna sonora curata da Dick Hyman, grande pianista e compositore jazz, che qui si diverte a trasformarsi in falsario, componendo diversi brani jazz e popolari in perfetto stile dell’epoca che vengono eseguiti imitando il modo di cantare di alcune star del tempo (Al Jolson, Helen Kane e Fanny Brice) e presentati come effettivamente dedicati al fenomeno Zelig: da Leonard the Lizard, Reptile Eyes, You May Be Six People, But I Love You, Doin' the Chameleon, The Changing Man Concerto fino alla spassosa e trascinante Chameleon Days, cantata da Mae Questel, la voce originale della vamp a cartoni animati Betty Boop. Completano l’affresco musicale del periodo diversi brani originali che spaziano dal Foxtrot (Ain't We Got Fun?, Sunny Side Up e I Love My Baby, My Baby Loves Me eseguite da The Charleston City All Stars ), al Jazz (Charleston di James P. Johnson e Cecil Mack) fino allo Swing (Chicago-That Toddlin' Town di Fred Fisher).