Se Julieta inscenava il legame fra una madre e una figlia innestando un rapporto filiale fra le due parti di cui si componeva, in modo che scoprissimo la seconda di queste misteriosamente generata e contenuta dalla prima, Dolor y Gloria, tre anni dopo, nasce, cresce e finisce in quel magnifico artificio, che ne è fondamento apertamente esibito.
Arrivato a settant’anni, che compirà fra qualche mese, Pedro Almodóvar si sente fragile, nel corpo e nella mente, e anche per questo desideroso di ricordare il suo passato, celebrare l’amore per sua madre e quello che da lei ha ricevuto, ringraziare il pubblico, i suoi attori, il cinema e l’uomo della sua vita. Scrive un film su di sé, in bilico fra autobiografia fedele e verosimile, si fa interpretare dall’attore più rappresentativo del suo cinema (Banderas), e affida il ruolo della mamma di Pedro bambino all’attrice che lui più di tutti ha contribuito a far sbocciare (Penelope Cruz). In un moltiplicarsi irregolare di proiezioni di sé, dietro cui nascondersi e mostrarsi come mai prima, si accomoda sul lettino dell’analista e svela in una seduta dall’andamento circolare i suoi acciacchi, la depressione, le ferite e le scoperte dell’infanzia, l’omosessualità e il potere del cinema.
Il titolo del film richiama le due costanti della vita di Salvador, il regista in crisi artistica che ne è il protagonista: le malattie, fra queste un cronico mal di schiena che gli rende doloroso persino camminare, e il successo, frutto di una carriera ricca di importanti riconoscimenti. Come Salvador dice al suo ex amante, riferendosi alla pena del periodo in cui, quando convivevano, cercava inutilmente di salvarlo dalla tossicodipendenza, “quella sofferenza è stata una buona scuola”. Da quella sofferenza è nata molta dell’ispirazione che lo ha portato al successo come cineasta; da quel successo, nel tempo, si è generata altra sofferenza che lo ha allontanato fisicamente e artisticamente dal set. Il dolore ha generato la gloria, da questa è scaturito altro dolore, diventato insopportabile al punto da bloccare i movimenti più banali e qualsiasi ispirazione cinematografica.
Dolor y Gloria è disseminato di germogli di cinema sovrapponibili al suo titolo: da una sessione riabilitativa in piscina Salvador torna nei ricordi alla sua infanzia con la madre, in riva ad un fiume, e lo stesso accade quando è lui, non qualche suo personaggio o compagno, a fare uso di droghe per stordirsi e farsi visitare nel dormiveglia dai fantasmi del passato. Il proliferare di livelli narrativi e corrispondenti protagonisti diventa vorticoso, poi, quando una sceneggiatura autobiografica di Salvador è firmata, per sua volontà, con uno pseudonimo e portata in scena dall’attore, Alberto, che è suo capriccioso alter ego. Alberto interpreta a teatro Marcelo, che è Salvador, il quale è Almodóvar, ma il vecchio amante di Salvador, capitato per caso in sala, si riconosce fra i personaggi dello spettacolo e tramite Alberto ha conferma dell'identità del vero autore.
Da questo concatenarsi centrale dell’opera, in cui Dolor y Gloria raggiunge il suo apice emotivo, comincia la risalita che porta a compimento la circolarità di cui si diceva. L’isolamento di Salvador finalmente si spezza per fare spazio a una nuova confidenza con gli amici, il pubblico e i film ancora da scrivere e dirigere, partendo proprio da quello con il bambino in riva al fiume.
Che cosa portiamo a casa con noi a fine proiezione? I bellissimi dialoghi, coinvolgenti e commoventi, capaci di far vivere l'affetto di Salvador per gli amici, la crisi creativa, l'amore che fu per Federico e la tenerezza del legame con la mamma. Le stanze del suo appartamento, in cui è sempre solo o in presenza di non più di un'altra persona, che pulsano della sua sofferenza e dei suoi sentimenti. L'espressione calda degli occhi di Banderas e la sua voce pacata, complici perfetti della capacità di Almodóvar di costruire effetti emotivi indelebili senza nemmeno il bisogno di alcuna musica a commento. Gli attrezzi del regista, il suo dispositivo, questa volta sono mostrati, non occultati, mai così fluidamente inseriti in quanto li ha preceduti e da questo chiamati a bassa voce in scena.