Giuseppe (Ivano Marescotti) rimane vedovo improvvisamente. Porta avanti da solo la sua attività, il Bar Giuseppe (quello del titolo, in programmazione gratuita su Rai Play) e distributore di benzina alla periferia di una città del Sud non meglio identificata (potrebbe essere Bitonto o un altro paesino della Puglia dove è stato girato l’intero film). Giuseppe ha due figli Nicola (Nicola Nocella) il panettiere, e Luigi (Michele Morrone) sorta di figliol prodigo dedito a droga e amicizie pericolose. Quando l’uomo si rende conto di avere bisogno di un aiuto per gestire il bar, seleziona fra tanti bisognosi, una giovane diciottenne africana, Bikira (Virginia Diop), come cameriera. In un battibaleno i due finiscono per sposarsi davanti allo sgomento dei figli di lui ed alle chiacchiere inviperite dell’intero paesello.
“Un enigma laico, ma anche un film sul lavoro e sul silenzio” ha dichiarato il regista Giulio Base, nato dall’incontro con il libro del cardinale Gianfranco Ravasi dal titolo Giuseppe - Il padre di Gesù. Lettura che ha acuito nel regista credente la voglia di approfondire la conoscenza della figura di Giuseppe, e l’idea di raccontare la sua storia, storia di accoglienza e accettazione, oltre che di amore, in chiave moderna.
Giuseppe è un “uomo giusto” così lo definisce Bikira (“vergine” in lingua swahili) quando tenta di spiegare che cosa di lui l'abbia attratta a tal punto da volerlo sposare. Non solo giusto (mostra una irrefrenabile istinto ad aiutare il prossimo in difficoltà), ma anche eccessivamente taciturno e profondamente riflessivo. Oltre ad abitare una casa che fa tanto “grotta” e ad avere in cortile un bue ed un asinello, nel tempo libero si diletta in piccoli lavori di falegnameria. E questo è il particolare della storia che, come un campanello, suona nelle teste degli spettatori del film, quando ad un tratto, del tutto inaspettatamente (nel senso anche di qualche pindarico volo di scrittura) la “vergine” Bikira fa la sua annunciazione: è incinta di “nessuno”. Ora, la trasfigurazione in chiave contemporanea de “lo cunto de li cunti”, avrebbe potuto avere un senso se si fosse mossa in uno scenario forse non così completamente laico. Nel senso che, dati questi personaggi come premesse (il vecchio falegname Giuseppe e la vergine Bikira), e per sfondo un paesino striato di venature razziste e xenofobe, spogliato di qualsivoglia concreto riferimento religioso, il palesarsi della dinamica familiare mariana rischia di suscitare un effetto tragicomico, piuttosto che indurre ad una immediata rilettura moderna della storia sacra, dove il ruolo della vergine è affidato con candore quasi populista, ad una rappresentante del popolo oggi più vessato da ingiustizie, quello dei migranti.
A fare da contraltare a questa impostazione tradizionalistica della narrazione in Bar Giuseppe, si impone uno stile di regia assolutamente innovativo, che affianca ad una fotografia hopperiana (il bar nell’area di servizio, le luci gialle dei lampioni nella notte, gli avventori seduti come spalmati sui muri del locale, le inquadrature suddivise geometricamente dalle architetture), movimenti di macchina continui (carrelli in avanti, indietro, in senso opposto rispetto alla marcia dell’oggetto seguito, in chiave di allontanamento), panoramiche e carrellate circolari ad esprimere il senso di spaesamento del protagonista. Questa impostazione ossimorica del film induce a mantenere una distanza che impedisce di non percepire un certo scollamento tra le immagini e la storia.
Sensazione ulteriormente amplificata dal muoversi in scena degli altri personaggi di contorno che sembrano tutti usciti da film diversi. Il bravo figlio-panettiere Nocella, avanzo di commedia noir, il figlio-dannato Morrone, che si trascina per tutto il film biascicando e fumando come fosse la mala copia de “lo Zingaro” del Marinelli mainettiano. Qualcosa insomma non funziona. Per fortuna a tenere il tutto resta la bravura e la centratura di Ivano Marescotti, capace di rendere credibile e denso di spessore anche il più “incredibile” dei personaggi.