“Forse non sarà nemmeno un film bello, non lo so; l’ho immaginato come un film angoloso, fuori delle regole, con la macchina da presa costantemente puntata sulle facce dei protagonisti. Sarà comunque un film sincero.” È sempre utile ricordare come Accattone nasca da una genuina necessità di Pier Paolo Pasolini: il bisogno di raccontare il mondo del sottoproletariato romano utilizzando un linguaggio nuovo e, allo stesso tempo, rinnovabile, che riesca a valicare i limiti morali e formali dello sguardo. Nel proseguire il suo progetto narrativo, le dita di Pasolini si staccano dalla macchina da scrivere mentre lo sguardo si avvicina alla macchina da presa.
Tale azione non coincide con l’insoddisfazione, e men che meno con le velleità di un “intellettuale annoiato”, bensì con una presa di coscienza che esalta — come ricorda Gian Piero Brunetta — la sua “cultura figurativa pulsante di umori e di energia pronta a esplodere in più direzioni.” Accattone, per Pasolini, rappresenta una sfida espressiva: inventare un linguaggio che suggerisca la metafora allo spettatore senza sfociare nel barocchismo e nel simbolismo. Può lo spazio bidimensionale demolire le sovrastrutture mentali che contaminano la durezza di un volto, di un luogo e, allo stesso tempo, raccontare senza filtri la realtà materiale di un’idea?
È a partire da questi presupposti che Pasolini recide i legami col cinema italiano a lui contemporaneo (al punto che persino la Federiz dell’amico Fellini rifiuterà di produrre il film, giudicandolo ingestibile e visivamente sgrammaticato). Il lessico di Accattone è tanto spontaneo quanto visionario, tanto distante dal neorealismo quanto vicino alla “poetica del pedinamento” zavattiniano nel restituire scampoli sporchi e polverosi di realtà. Il divario, tuttavia, risiede nell’intento tutto pasoliniano di tradurre le parole in immagini, l’inseguimento — privo di elaborazioni — della famigerata e “irraggiungibile” metafora per ricongiungere due anime solo all’apparenza incompatibili. L’esperienza cinematografica estremizza l’ossessione letteraria, laddove il racconto dell’impossibile redenzione di Vittorio Cataldi (Franco Citti, doppiato da Paolo Ferrari) si accavalla ad assillanti sogni di morte.
Di fatto, Pasolini tenta di risolvere il dramma passionale dei “ragazzi di vita” attraverso un ossimoro leopardiano esplicito. La violenta emarginazione sociale dei suoi romanzi finisce per spezzare le catene della colpa proprio sullo schermo, attraverso visioni silenziose di resurrezione e momenti di angosciosa realtà scanditi, per contrasto, dalle musiche di Bach. È l’illusione cinematografica ad assolvere il protagonista dall’assenza di orientamento morale ed è sempre il cinema, con le sue crude energie espressive, a ricalcare i contorni della tragedia sociale (e individuale) slegata dal giogo dell’enigmatico.
Ad assecondare queste posizioni intervengono Tonino Delli Colli, che esalta l’impietosa violenza estiva del sole romano con chiaroscuri ancora più intensi, e Nino Baragli, che scandisce il ritmo disordinato delle riprese attraverso raccordi di montaggio insoliti e imprevedibili. Accattone non può e non vuole rispettare le regole della cinematografia “esperta”: ogni difetto formale viene convertito in un’operazione di rilettura che fa dell’essenzialità il linguaggio prediletto. Questo modo di raccontare “dissonante” costituisce l’atto di devozione definitivo nei confronti dell’umanità borgatara del magnaccia e dei personaggi che lo accompagnano nel suo viaggio verso la morte. E se la morte è l’unico atto di liberazione possibile per Vittorio, che insegue la propria fine a cavallo di una motocicletta, Pasolini sfugge maniacalmente alle convenzioni cinematografiche del suo tempo per liberarsi da una più ampia e invadente stretta moralista.
È l’estremo desiderio di interfacciarsi con la vita di chi la subisce senza infliggersi giudizio né sanzione, da chi è libero dalla retorica perché prigioniero di una condizione ineluttabile. Lo sguardo di Pasolini non scandisce la spasmodica ricerca di una dignità sociale (quella tanto agognata dal neorealismo): è fame, è sete, è impulso nervoso che segue il movimento frenetico di corpi coperti da polvere e sangue.