La versione restaurata di 4 mosche di velluto grigio, proposta al Cinema Ritrovato 2020 in occasione del cinquantesimo anniversario dal debutto alla regia di Dario Argento (L’uccello dalla piume di cristallo, 1970), pone lo spettatore in una posizione ambivalente costringendolo a problematizzare il proprio sguardo. Pur confermandosi tassello fondamentale del percorso registico argentiano – sia perché chiude la cosiddetta “trilogia degli animali” sia perché leggibile come prologo a Profondo rosso tanto in senso musicale quanto in senso tematico – il terzo film del regista romano rivela oggi le proprie fragilità narrative e linguistiche.
Se è vero – come ha affermato lo stesso Argento nella conversazione con Emiliano Morreale – che la paura è un linguaggio universale e che ciò che cinematograficamente spaventava nel 1971 può spaventare ancora oggi, non si può non riconoscere che certi snodi drammatici o certi caratteri di personaggi oggi fanno difficilmente presa sul pubblico. Quelli che Roberto Pugliese in Argento vivo. Il cinema di Dario Argento tra genere e autorialità definisce “elementi continuamente depistanti” non risultano sempre integrati in una linea narrativa coerente, paiono abbozzi di percorsi che giocano sì con lo spettatore ma mettendo in scena più che altro il Deus ex machina registico piuttosto che un tragitto che sviluppi storia e personaggi. Forse emerge anche da ciò quell’auto-referenzialità che Argento riconosce al suo film, definendolo un “grande pastiche che coinvolge anche elementi personali che avevo inserito senza accorgermene”. Il regista si riferisce esplicitamente alla moglie del protagonista (interpretata da Mimsy Farmer), che somiglia fisicamente e caratterialmente alla sua ex-moglie, nonché ai gusti musicali di Roberto Tobias, il musicista al centro della storia.
È significativo che Argento parli di pastiche perché effettivamente il film, pur categorizzabile come thriller, presenta elementi appartenenti ad altri generi e registri come il comico, la cui ripetitività però rasenta spesso un non voluto macchiettismo (le gag con il postino). Da questo punto di vista, 4 mosche di velluto grigio può ben essere definito una “costruzione bizzarra”, secondo la definizione che Argento stesso dà delle sue opere. In effetti, la genesi del film è scaturita proprio dall’idea di creare qualcosa di nuovo, di diverso dai film precedenti, di bizzarro. E indubbiamente non possono non colpire taluni aspetti della trama (per altri versi invece inverosimile) che trattano i temi del sogno e della psicoanalisi, così come alcuni arditi stacchi di montaggio e certe invenzioni visive (ad esempio l’inquadratura dall’interno della chitarra, peraltro simile a un’inquadratura di Conchita del 1929 di Jacques de Baroncelli, anch’esso visto al Cinema Ritrovato quest’anno).
La tecnica è infatti uno dei due aspetti del film che ancora oggi colpiscono per la loro novità, la freschezza e l’originalità. Un finale come questo (di cui per ovvie ragioni non sveliamo gli accadimenti) suscita ancora ammirazione per la pulizia dell’immagine, l’effetto visivo e l’idea stessa alla base della scelta registica: girare a 12.000 fotogrammi al secondo con la particolare macchina da presa di proprietà dell’università di Lipsia ha permesso di ottenere quella che Argento stesso ha apprezzato come una “splendida e fluidissima sequenza al rallentatore” che condensa e fa esplodere tutta la tensione accumulata nell’epilogo.
Il secondo aspetto intramontabile del film è poi quello cinefilo. Oltre a contenere varie citazioni e diversi riferimenti a capolavori e correnti della storia della settima arte (uno su tutti: Roberto vive in via Fritz Lang), il film stesso si presenta come una riflessione sul cinema e sul potere dello sguardo. È infatti l’occhio della vittima a rivelare il colpevole, è l’osservazione a svelare la realtà e sono poi l’esperienza del reale e il suo racconto a ricomporre i pezzi del puzzle dandoall’insieme un’organizzazione razionale e una spiegazione.