“Stranger Eyes” più interessante da discutere che da vedere

Stranger Eyes, il quarto lungometraggio scritto e diretto da Siew Hua Yeo, arriva nelle sale italiane dopo la candidatura al Leone d’oro. La ricerca di una bambina scomparsa da parte dei giovani genitori, piuttosto che articolare un’intreccio tipicamente thriller, funge da pretesto per discutere dell’annosa questione filosofica sul rapporto fra osservatore e osservato. Il punto di vista della macchina da presa tende sempre all’oggettività, all’asettica distanza ideale per studiare il soggetto, 

“Do Not Expect Too Much from the End of the World” come odissea urbana

Do Not Expect Too Much from the End of the World è un gioiello di estrema raffinatezza non solo per la sua complessità ma anche per la presa salda e decisa sulla realtà contemporanea, per la sua interpretazione lucida del nostro momento storico in cui l’immagine ricopre un ruolo decisivo. Un’Odissea urbana stratificata e intelligente che riproduce lo squallore del presente, il suo abisso spirituale e morale, la sua fine inesorabile che non sarà pirotecnica, ma lenta e silenziosa.

“Giurato numero 2” speciale II – Lo sguardo sulla soglia

Con la semplicità di una messa in scena rigorosa e asciutta, dove ogni inquadratura e ogni dialogo sembrano essere nati esattamente per occupare quel posto, Clint ci chiama all’azione, ci vuole attenti, pronti a dubitare, ci vuole sull’aereo con Sully, sul quel treno alle 15:17, ci vuole in carcere con Mandela o al fianco di Maggie fino alla fine, vuole che restiamo sia in macchina con Dave ma anche fuori, in definitiva ci vuole davanti a quel portone, sulla soglia di uno sguardo che assume su di sé le sorti di una morale possibile.

“Giurato numero 2” speciale I – Eastwood e il mosaico della giustizia

Se consideriamo Giurato numero 2 come l’addio del novantaquattrenne Eastwood al cinema, possiamo leggere questo film come l’ultima tessera del mosaico che va a completare la sua opera. Quella verità in azione – quella giustizia che prima ancora che nei tribunali soppesa scelte e azioni dentro di noi – è un elemento che collega tanti suoi film: pensiamo per esempio a Un mondo perfetto, a Mystic River, a Gran Torino, ad American Sniper, a Sully  o ai più recenti Il corriere – The Mule e Richard Jewell .

Wim Wenders on the road

“Molti dei miei film iniziano con delle mappe stradali invece che con delle sceneggiature. A volte è come volare alla cieca, senza strumenti. Voli per tutta la notte e al mattino arrivi da qualche parte. Vale a dire: devi provare ad atterrare da qualche parte, così il film può finire.
Paris, Texas è venuto fuori in modo diverso dai miei film precedenti. Ancora una volta, abbiamo volato tutta la notte senza strumenti, passando attraverso qualche tempesta, ma questa volta siamo atterrati esattamente dove intendevamo” (Wim Wenders).

“Eterno visionario” biopic consapevole e rassegnato

Tutto si fonde e si confonde, il teatro e il cinema si specchiano e si riflettono specularmente, vestendo l’uno i panni dell’altro, nel tentativo di indagare la vita e il significato insondabile della sua stessa rappresentazione. La cinepresa inerme non può far altro che seguire fedele quei personaggi instabili e scandalosi per gli anni, dalla prima assoluta de I sei personaggi in cerca d’autore al teatro Valle di Roma nel 1921 a Nostra Dea dell’amico Massimo Bontempelli, messa in scena dalla compagnia del Maestro al teatro Odescalchi nel 1925.

“La cosa migliore” e il giudizio sospeso

La macchina da presa di Federico Ferrone segue con sicuro piglio documentaristico i personaggi di La cosa migliore attraverso gli spazi del nostro Nord-Est post-industriale, freddi e sovrastanti nella loro monumentalità. Parcheggi e bar dove si cercano forme di creatività e di aggregazione, casermoni geometrici dove la vita famigliare non ha spazi di riservatezza per elaborare perdite o sentimenti di intimità, fabbriche senza più una catena di montaggio ma comunque alienanti e sempre organizzate secondo un’ottica di caporalato e nonnismo.

“Flow” contro l’isolamento dell’essere

In un momento storico in cui si sta timidamente iniziando a considerare gli animali come individui dotati di un linguaggio proprio, minando finalmente l’unicità di quello umano, l’esperimento di Zilbalodis è molto importante. Biologia e etologia ormai da tempo hanno riconosciuto la complessità del linguaggio animale, ma accettarlo a livello culturale è ben più complicato, perché si demolirebbero alcuni punti fermi di un pensiero ancora fortemente antropocentrico.

“Anora” e il tramonto del sogno americano

Anora, pur non sembrando un’eccezione nella galleria di dolci disgraziati di Baker, ha almeno quattro marce in più. Forse cinque, forse sei, prendendo in prestito la battuta con la quale l’impulsivo e sconsiderato Vanya, parlando di carati, finirà per convincere Ani a convolare a nozze. Erroneamente considerata una parente della più fortunata e iconica Vivian di Pretty Woman, Anora si rivela semmai la moderna sorella di Cabiria, figura resa immortale dalla coppia Masina-Fellini.

“Terra incognita” e i confini tra natura e industria

Terra incognita compie una complessa ricerca iconografica, fatta di accostamenti di paesaggi naturali e industriali, apparentemente opposti, che tuttavia contengono, al loro interno, continui rimandi all’altra realtà, non solo nel carattere monumentale delle Alpi e della costruzione della centrale, ma anche in dettagli apparentemente minori, come le immagini di porte, antri e tunnel che contraddistinguono sia la natura che l’impianto nucleare.

“A cavallo della tigre” disarcionati dal boom

Realizzato nel 1961, A cavallo della tigre riuniva il meglio della commedia all’italiana. La sceneggiatura era, infatti, opera dello stesso regista del film, Luigi Comencini, fresco dei grandi successi di Tutti a casa (1960) e del dittico Pane, amore e fantasia (1953) e Pane, amore e gelosia (1954), Mario Monicelli e della collaudata coppia Age e Scarpelli, che aveva già collaborato con Comencini per il precedente Tutti a casa.

“Paris, Texas” e la critica

“Come spesso in Wenders il viaggio geografico è insieme viaggio interiore, alla scoperta di sé e dei propri sentimenti, affrontati con una semplicità capace di riscattare un’emotività tanto diretta da sembrare anche banale (come a volte nei testi di Sam Shepard che co-sceneggia) ma che sa toccare temi centrali come la solitudine, il senso di abbandono, il perdono di sé, la redenzione. Grazie anche alla prova perfetta di Harry Dean Stanton e della ventiduenne Nastassja Kinski” (Paolo Mereghetti).

“Kokomo City” e la parola senza censura

Kokomo City è un film che ragiona sui diritti e la tutela delle donne trans negli Stati Uniti, lo fa attraverso le parole di chi subisce ogni giorno minacce e soprusi e verso cui manca sia una risposta delle forze dell’ordine che dei media. La bravura di D. Smith nella creazione di quest’opera risiede nel creare uno spazio libero e incensurato dove sono proprio queste donne ha esprimersi in merito alla propria condizione di vita, senza retorica ed “eroismi”.

“Desire Lines” intrinsecamente queer

È lungo la linea di confine tra essere e apparire che si muove Jules Rosskam in Desire Lines: nel descrivere e raccontare il complesso universo dei transessuali FtM (“Female to Male”, ovvero “da femmina a maschio”) il regista ed educatore americano realizza un’opera cinematograficamente complessa, che non si incasella in un genere preciso ma rompe gli schemi e le loro regole, esattamente come fanno i suoi protagonisti.

“Longlegs” vecchia scuola con nuovo vigore

Longlegs attinge al repertorio dei thriller paranormali e degli horror sulla possessione demoniaca, creando però una messa in scena elegante e consapevole del gusto contemporaneo che però su di esso non indugia troppo, per concentrarsi invece su una costruzione magistrale della suspense, con un avvicendarsi serrato degli eventi e pressoché nessuna diminuzione della tensione.

“Memorias de un cuerpo que arde” nel fuoco dell’archivio femminile

Memorias de un cuerpo que arde sancisce il corpo femminile come primo archivio della memoria. Il corpo, che si muove nello spazio, che subisce violenza, e che esplora il piacere non può che essere quello di una donna. Nell’evolversi della figura femminile in scena, la regista individua proprio la cassa di risonanza di mille pensieri e ricordi, di cose mai dette, di dolori celati; nel film di Antonella Sudassi Furniss il corpo di donna è un fuoco che divampa per attirare l’attenzione che non ha mai ricevuto

“La belle de Gaza” nel deserto emotivo

La camera si muove tra le strade di Tel Aviv, alla ricerca di una creatura mitologica: una donna, che ha viaggiato a piedi da Gaza alla città israeliana per poter essere pienamente sé stessa. Il documentario di Yolande Zauberman riflette l’idea di un viaggio attraverso un deserto emotivo, in cui manca la piena accettazione, verso l’oasi della transizione; l’opera mostra le condizioni delle molte donne trans che sono costrette a lavorare come sex worker e rischiano la loro vita ogni giorno sulle strade israeliane.

“Les femmes au balcon” tra Hitchcock e Sciamma

Nel film di Merlant (presentato a Cannes 2024 e ora a Gender Bender 2024) è sempre la donna ad indirizzare lo sguardo, a riappropriarsi del suo potere. Le tre amiche sono soggetti attivi di visione e di erotizzazione dei corpi e la regista francese (che ha scritto il film con Céline Sciamma, con la quale aveva già lavorato sul set di Ritratto della giovane in fiamme e alla sceneggiatura di Parigi, 13Arr. di Audiard) mira a scardinare una rappresentazione ovattata, tradizionale, della donna, per renderla tridimensionale.

“Berlinguer – La grande ambizione” e la magnifica affabulazione

Il Berlinguer di Segre è uomo di ascolto e di parola. In un paese in cui si cominciano a manifestare le idee a voce alta e per slogan (negli ormai prossimi anni ’80 il marketing verbale sarà l’incipiente virus che contaminerà il linguaggio “governativo”) il leader del PCI, imperterrito, continua a scrivere (le ultime sequenze della pellicola lo mostrano mentre legge un’intima lettera all’amata moglie) e declamare meditate dissertazioni, semplici e di toccante profondità per empatia e capacità di osservazione.

“Duino” nel gioco di specchi delle identità

Il gioco di specchi tra Matías e il personaggio del suo film riflette meta-cinematograficamente la situazione di Juan Pablo Di Pace, che di Duino è protagonista ma anche sceneggiatore, co-montatore e co-regista insieme ad Andrés Pepe Estrada: Di Pace ha scelto la propria vita come soggetto del suo lungometraggio di debutto dietro la macchina da presa per raccontare quei sentimenti di incompiutezza e di potenzialità inespressa che hanno caratterizzato e caratterizzano tante “storie mancate” di giovani omosessuali, prigionieri di soffocanti culture etero-normative e di solidificati pregiudizi sociali.

“The Substance” e il ritorno del rimosso estetico

Se c’è un film recente che ha azzeccato in pieno l’aggiornamento del body horror al contemporaneo è questo. Vedersi invecchiare mentre il mondo si mostra perfetto, sentirselo ricordare dalla nostra stessa immagine congelata per sempre giovane in una foto profilo, sperimentare la scissione identitaria tra la facciata di bellezza ed equilibrio che proiettiamo e la sofferenza “dismorfica” che ne è l’ombra eternamente rimossa, ineliminabile e consustanziale.