“Gli spostati” e l’America al crepuscolo

Tutto è indomito ne Gli spostati, tutto è fuori posto, come d’altra parte suggerisce il titolo originale, The Misfits, che allude proprio all’incapacità di adattamento ad un contesto, che in questo caso è sia quello sociale – l’America che sta perdendo la sua innocenza e si affacciava ad una nuova epoca – che iconografico – siamo al crepuscolo del mondo dei cowboy – che relazionale – la crisi del modello famigliare tradizionale è ormai esplosa. Tutto sfugge nel film, a cominciare dai titoli di apertura la cui grafica gioca su tessere di puzzle che non riescono a comporre un disegno d’insieme, passando per i protagonisti in perenne fuga da passato, presente e futuro, per arrivare alla stella della scena finale, da inseguire nella notte, forse senza sosta, per trovare un posto, una casa, un riparo dal dolore della vita.

Le icone di Jane Birkin e Jane Fonda

Citizen Jane, l’Amérique selon Fonda (F. Platarets, 2020) e Jane Birkin, simple icône (C. Cohen, 2019) sono due documentari che ci pongono davanti al concetto di “icona” in quanto immagine-portavoce di significati indiretti, l’essenza estetica che diventa configurazione collettiva attraverso narrazioni politiche, sociali e culturali. Due nomi che con le logiche dell’agire pubblico e privato, tra battaglie personali e comunitarie, hanno contribuito a segnare i cambiamenti di un’epoca costruendo un percorso di autoaffermazione imprescindibile. Jane Fonda, la femme fatale, figura attoriale inizialmente plasmata sulle fantasie di un pubblico prevalentemente maschile, costretta costantemente a misurarsi col nome del padre. Jane Birkin, la “petite baby doll” della swinging London trapiantata in Francia, indissolubilmente legata nell’immaginario collettivo al musicista Serge Gainsbourg. 

Oltre il divismo: Diana Karenne in “Miss Dorothy”

Diana Karenne è una delle più grandi esponenti del sistema divistico del cinema muto italiano, sebbene abbia saputo ritagliarsi una carriera parallela, “altra” dalla diva dedita al perbenismo e alla mondanità, come donna emancipata e dotata di una particolare intelligenza, colta, con uno spiccato interesse verso la pittura, la musica e la letteratura. I primi anni Venti sono gli ultimi che trascorre in Italia dopo una ricca e fruttuosa filmografia di cui spesso è anche regista e sceneggiatrice. Ad oggi risulta impossibile dare un giudizio critico o comunque costruire una documentazione precisa riguardo suoi lavori da regista, poiché di questi e di molte altre opere di cui fu interprete non vi resta purtroppo alcuna traccia. Dopo Miss Dorothy e qualche altro film con Antamoro, Diana Karenne fugge dalla grave situazione di crisi che ha investito il cinema italiano. Si unisce a dei cineasti russi e si trasferisce in Francia e Germania dove conclude la sua carriera con l’arrivo del sonoro.

Henry Fonda: in nome dell’individuo

Se si va oltre la retorica dei discorsi alle folle e si osserva il vero motivo che lo spinge ad agire, Fonda non è qui l’ideale american hero pronto a lottare per ciò in cui crede ad ogni costo, ma un uomo che è o sconvolto dagli eventi che gli capitano (Sono Innocente, Furore) oppure è indignato per l’assenza, nella sua personale quotidianità (L’uomo questo dominatore) o all’interno di una comunità (Alba di gloria) della facoltà di auto-affermarsi. Ma è comunque una questione di invasione di campo, a cui si deve per forza rispondere: l’ingiustizia tocca la sicurezza del proprio vivere, sconvolge le abitudini e mette in crisi le facoltà liberali. E allora ecco la lotta del singolo per sé stesso. O al massimo, in nome del singolo. Negli anni in cui il cinema hollywoodiano lotta contro gli effetti della Grande Depressione, Fonda risponde con ruoli in cui è l’affermazione della dignità del singolo a guidarne ogni gesto: capace di ritratti paranoici, sfumature comico-ironiche e fermezza drammatica, si fa in questi anni paladino dell’individualismo, della lotta necessaria contro una società che di quei valori avrebbe dovuto farsi promotrice.

“Among the Living” al Cinema Ritrovato 2020

Heisler era giusto reduce dall’horror The Monster and the Girl, e gli viene affidata una sceneggiatura di Lester Cole e di un grande scrittore di horror melodrammatici come Garrett Fort, che aveva lavorato su Dracula di Tod Browning e Frankenstein di James Whale.  E tocchi di orrore sono presenti ovunque nelle atmosfere sinistre di Among the Living, dalla meravigliosa e alla terribile scena dell’inseguimento di una ragazza da parte di Paul, che scompare nel gorgo oscuro di un vicolo, alla ferocia compiaciuta con cui la folla insegue Paul e poi John, credendolo il fratello, così simile a quella di M – Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang.

Marco Ferreri ritrovato. Gli anni Sessanta

Le prime tre giornate dedicate a Ferreri regista hanno visto proiettati due episodi di film collettivi e tre lungometraggi. Il fatto che questi siano stati tutti girati negli anni Sessanta giustifica solo in parte il riproporsi di temi ricorrenti come il sesso e il cibo, che infatti resteranno tematiche dominanti l’intera filmografia di Ferreri. In queste opere l’autore esplora certamente alcuni argomenti che contraddistingueranno la sua carriera, ma ciò che ci è dato di vedere è che Ferreri stabilisce da subito non soltanto cosa vuole raccontare ma come: è il suo rapporto con lo spettatore, la sua modalità di narrazione (che diventa modalità di analisi e commento della società) a farsi istantaneamente sostanza cinematografica e sguardo autoriale.  

“Claudine” di John Berry e la fatica di essere donna

Prodotto dalla neo-nata Third World Cinema – compagnia fondata per valorizzare maestranze e artisti appartenenti a minoranze etniche, così come opere che trattassero tematiche annesse – Claudine si presenta come un ritratto serio e realistico della condizione femminile nera di quel periodo. Le vicissitudini della protagonista, madre single proletaria divisa tra l’educazione e l’allevamento di sei figli, un lavoro come domestica non dichiarato per non perdere parte dei sussidi e una relazione in fieri con un giovane uomo, costituiscono il nucleo di una commedia romantica non priva di sottotracce analitiche della società statunitense.

Tra Iliade e Odissea. Ancora su “Quando eravamo re”

Inaspettatamente, Quando eravamo re ottenne il premio dell’Academy; allo stesso modo, 22 anni prima, Alì era riuscito a smentire ogni pronostico di fronte ai sessantamila fortunati dello Stade Tata Raphael e un miliardo di telespettatori sbalorditi. Non serve soffermarsi sul perché quell’incontro abbia preso un posto nell’olimpo sportivo: l’imprevedibile strategia portata sul ring dal fu Cassius Clay, unita alla narrativa del David contro Golia, risulta sufficiente per giustificare ciò. Tuttavia, se il documentario di Gast avesse semplicemente catturato gli otto round del combattimento, forse avrebbe attirato solo l’attenzione degli amanti del pugilato e dello sport; invece, sono proprio le immagini dell’avvicinamento alla sfida a dare giustizia alla fenomenalità comunicativa di Alì.

“Les travailleurs de la mer” al Cinema Ritrovato 2020

I sei quadri che Antoine scrive sono per la maggior parte inquadrature girate in esterno con il mare che funge da presenza eterna e testimone delle vicende umane che si consumano a Camaret-sur-Mer: menzogne, amori segreti, invidie, questioni di avarizia e morte. La morte, nel sesto ed ultimo quadro La grande tomba, è pura tragedia: superate le prove dettate dalla natura, Gilliat torna faticosamente nella società, convinto di sposare finalmente Deruchette; un’ultima prova, quella del dolore, infattibile da superare, insopportabile. Gilliat si lascia andare allora nell’elemento che più lo ha ascoltato e che non lo ha mai giudicato, il mare che in un’ultima inquadratura si conferma il vero vincitore morale della storia di Les travailleurs de la mer, totalmente al di sopra dei sentimenti e sopra un’amore che non sarebbe mai potuto comunque esistere.

“La Fête espagnole” al Cinema Ritrovato 2020

La Fête espagnole è un progetto in eterno divenire più volte presentato durante il Cinema Ritrovato sempre in veste rinnovata e più completa ma allo stesso tempo molto lontana da quella originaria. La particolarità di questa pellicola deriva dall’unire due grandissimi sperimentatori e teorici di cinema: Germaine Dulac, qui alla regia, e Louis Delluc, autore della sceneggiatura originale. Punto di raccordo si trova nell’attrice protagonista, Ève Francis, protagonista e moglie dello stesso Delluc. Come suggerisce il titolo la storia si svolge in Spagna durante una festa indiavolata per le vie della città.

I “frutti dell’ira”. La collaborazione tra John Ford e Henry Fonda

A sentire certi discorsi, chi non avesse mai visto un suo film potrebbe immaginarsi una presenza calda e stabile nella sua equanimità, un altro Gregory Peck. Invece Fonda è un interprete tutto emotivo, il cui algido autocontrollo si incrina continuamente di spiragli nervosi, rabbia, sconforto, in una dialettica vibrante che denuncia l’investimento totale nei ruoli prescelti, spesso (come ricorda ancora Horwarth) non esenti da un certo autobiografismo. Fonda non corrisponde mai astrattamente a un’idea o a una causa, ma le incarna con furia bruciante, ossessivamente, tornando a esplorarle da tutti gli angoli. Si pensi al tema dell’esecuzione imminente, rinviata, a volte scongiurata e a volte ineluttabile (da Alba fatale a La parola ai giurati): i biografi lo riconducono a un episodio traumatico dell’adolescenza, quando il padre lo portò quattordicenne ad assistere al linciaggio dell’afroamericano Will Brown durante i moti razziali di Omaha del ‘19.

“Hostages” al Cinema Ritrovato 2020

Hostages si potrebbe forse definire un caso in cui l’insieme è un po’ peggio della somma delle sue parti: straziante e delicatissimo è l’ultimo saluto del padre alla tomba della figlia morta (forse la scena migliore del film), trionfante e liberatoria è l’esplosione delle bombe in giro per la città, sagace e spietata è l’ironia nei dialoghi fra i gerarchi nazisti nella loro superba vanagloria. E la battuta finale, pronunciata con pomposo sussiego, su come essi procedano per la retta via senza distinguere fra poveri e ricchi, sembra fare da glossa beffarda non solo al loro regime, ma alla discrezionalità del potere in toto.

 

Jean Grémillon e la doppia vita di Monsieur Victor

Il film è dominato dalla dualità del protagonista, tra esterni solari e vitalissimi e interni cupi e attraversati da linee nette come ferite, o sbarre di un carcere, in una Tolone popolare (brillantemente ricostruita in studio) allegramente confusionaria di giorno e oscura e pericolosa di notte. E anche i personaggi femminili, la moglie di Victor, e madre giudiziosa, Madelaine (Madeleine Renaud) e l’incontenibile Adrienne di Viviane Romance, pur non scontrandosi direttamente, sono personalità antitetiche ma tutt’altro che bidimensionali: Adrienne, pessima moglie e madre imperfetta, rimane fedele a se stessa a costo di rinunciare ai suoi uomini, rivendicando la scelta di non accontentarsi, mentre Madelaine riesce a volgere gli eventi in cui è suo malgrado coinvolta in un’occasione di apertura e cambiamento.

“Sepa: Nuestro Señor de los milagros” al Cinema Ritrovato 2020

Che cos’è la giustizia? È la domanda principale che ci e si pone l’importantissimo documentario di Walter Saxer. Sembra palese che l’intento degli autori non sia quello di sostenere tesi, ma di documentare una realtà alternativa, facendo crescere nello spettatore interrogativi sulle condizioni dei detenuti a Sepa, ma anche in ogni altra parte del mondo. Se da una parte il film testimonia quanto il progetto di Sepa sia innovativo, dall’altra si scontra con il muro dell’arretratezza burocratica e della corruzione di un Paese come il Perù di metà anni ’80. Gli abitanti del carcere vennero completamente isolati e dimenticati dal resto del Paese e molti, dopo aver ampiamente scontato la propria pena, rimasero lì a lungo a causa di falle amministrative, ma soprattutto della noncuranza e totale assenza di considerazione verso queste persone, mai realmente considerate tali.

“The Elephant Man” al Cinema Ritrovato 2020. Siamo tutti John Merrick

Forse ciò che distingue The Elephant Man è proprio quello che lo accomuna a tutti gli altri film: il freak, il mostro, lo sfigurato. L’uomo mostruoso (sia esso nano, gigante o menomato) è una costante nella visione lynchana ma, in quasi tutte le opere, partendo da Eraserhead e arrivando fino a Twin Peaks, esso è un’entità trascendentale, sibillina, sconosciuta e incomprensibile. Tutto, fuori che umano.  È invece chiaro che proprio questo John Merrick è: un uomo. È su questa aspettativa che inizialmente gioca il regista: sottraendocelo ostinatamente dallo sguardo vuole dapprima creare in noi l’idea del mostro estraneo, per poi presentarci inaspettatamente l’uomo, non venuto da chissà quale dimensione per trasmetterci criptici segreti, ma desideroso anch’egli, come tutti, di felicità, amore e comprensione.

“Die Spinnen” di Fritz Lang al Cinema Ritrovato 2020

È tornata Musidora? L’illusione c’è nelle prime scene de Il Lago d’oro ovvero i ragni, il primo capitolo della serie in tre parti Die Spinnen diretta e sceneggiata da Fritz Lang. Una misteriosa banda di malviventi, dall’evocativo nome “I Ragni”, scopre che il pilota Kay Hooh (Carl de Vodgt) sta andando alla ricerca di una zona del Sud America dove gli Inca sarebbero sopravvissuti assieme a grandi ricchezze. Eroe e malviventi partono allora alla ricerca della ricchezza nascosta ma scopriranno presto che ottenerla non sarà per nulla facile. A guidare I Ragni troviamo la misteriosa Lio Sha (Ressel Orla), una sosia di Musidora che non spicca per simpatia, intelligenza e arguzia come l’originale, ma che cercherà in tutti i modi di mettere i bastoni tra le ruote al protagonista.

“Anna Bolena” di Ernst Lubitsch al Cinema Ritrovato 2020

Anna Bolena è una donna che bene o male è entrata nell’immaginario di tutti, sia per essere, in parte, responsabile dello scisma anglicano sia per la sua tragica fine. Nel 1920 Ernst Lubitsch decide di dedicarsi a un dramma in costume a lei dedicato lasciando da parte le commedie che lo avevano reso celebre. Inutile dire che dei momenti comici sono comunque presenti nel film, in particolare legati alla figura di Enrico VIII, interpretato da uno splendido Emil Jannings. In questa versione romanzata, troviamo una Anna Bolena (Henny Porten) che lotta tra il desiderio di ottenere la corona inglese e il suo amore per Sir Norris. La storia la conosciamo, Anna sceglierà il regno ma alla fine perderà i favori del Re e anche la testa.

“Conchita” al Cinema Ritrovato 2020

Il tempo e lo spazio trovano la loro completezza nella danza sfrenata corporea fulcro del vero essere di Conchita, danza guidata dalla fotografia morbida di Louis Chaix che ammorbidisce i tratti, protagonista, fulcro degli eventi e pura forma d’arte nell’arte di plasmare gli uomini a proprio piacimento nella consapevolezza di un corpo che diventa scultura in movimento che si presta agli occhi, che incanta e conquista. Una danza che si presta ancora di più all’autenticità nella lunga scena di nudo integrale, quale culmine artistico delle inquadrature condotte dalla regia di Baroncelli.

Le chiavi di vetro di Tuttle e Heisler

Il diverso tono dei due film dà luogo a un interessante caso di doppia variazione sul tema, incarnata dai due Ed rispettivamente interpretati da George Raft e Alan Ladd: il primo è diretto e ironico, a tratti persino spensierato, il secondo più obliquo e impassibile, capace di manipolazioni ben più ciniche. Differenze che riverberano sia nello stile – essenziale nel primo film, elaborato e supportato da una macchina da presa molto più mobile nel secondo – sia nell’andamento della narrazione intorno ai protagonisti: più asciutto e rapido La chiave di vetro di Tuttle, in cui il dettaglio determinante per la risoluzione finale è suggerito molto presto, più elaborato e grave quello di Heisler, che dà alle false piste una direzione più contorta e cupa, con la sequenza, assente nel primo film, dell’incontro alla villa dell’editore Matthews, che culmina in modo drammatico.

“Ai no onimotsu” al Cinema Ritrovato 2020

Ai no onimotsu è infatti un film molto parlato; la parola, per così dire, regola anche il traffico tra i vari personaggi della numerosa famiglia, ognuno alle prese con una gravidanza e ognuno in qualche modo più severo e coerente con la politica del capofamiglia nei confronti degli altri che verso se stesso. Emerge quindi in questi primi film selezionati dalla retrospettiva dedicata al regista giapponese dal Cinema Ritrovato la capacità di Kawashima di realizzare film in qualche modo corali, dove anche i personaggi secondari sono tratteggiati con precisione e rappresentano aspetti di uno spaccato sociale più vasto

“Lo strano amore di Martha Ivers” al Cinema Ritrovato 2020

Lo sguardo vitreo e l’espressione del volto incorruttibile e dura della giovane Martha Ivers alla vista del cadavere della zia assassinata sono già una dichiarazione d’intenti. Nessun dubbio. Nessuna esitazione. Nessun bisogno di redenzione. C’è voluto pochissimo: uccidere la donna e causa del suo malessere “è stato come respirare”, per citare il personaggio di Henry Fonda in Furore di John Ford. Alla regia di Lo strano amore di Martha Ivers c’è invece Lewis Milestone il cui film – oltre che a reggersi sulle splendide interpretazioni di Barbara Stanwyck e un Kirk Douglas alle primissime armi – parla del bisogno di allontanarsi dal proprio passato rimuovendone le macchie e dell’inevitabile senso di colpa che ne consegue.