Speciale “Joker – Folie à Deux” – Temerario ma goffo

La strada del musical suggeriva una certa temerarietà nell’intenzione di proseguire un progetto che con il film del 2019 sembrava avere già raggiunto il suo culmine. La virata verso un genere che inevitabilmente avrebbe portato con sé un elemento anomalo apriva a una serie di intriganti possibilità espressive. Eppure la dimensione spettacolare del musical resta perennemente isolata da tutto il resto e le esibizioni canore vengono relegate ad intermezzi avulsi da una struttura che fatica terribilmente nel trovare la spinta propulsiva agognata.

“Bestiari, Erbari, Lapidari” e il catalogo come comprensione umana

Bestiari, Erbari, Lapidari è un film che si pone da subito come un elenco: un titolo che è già un indice, un film che è già consapevolmente un catalogo. Massimo D’Anolfi e Martina Parenti sanno che si può partire solo con delle distinzioni precise. Se nel loro precedente Guerra e pace l’indice era temporale (passato remoto, passato prossimo, presente e futuro) qui è tipologico: Bestiari, Erbari, Lapidari. Una tautologia. Tre soggetti che rimandano a tre sfere, tre universi, tre dimensioni precise… universali, ma specifiche: animali, vegetali e minerali.

“Il tempo che ci vuole” e il ritratto amorevole del padre

I ricordi e le esperienze personali, prima di farsi prodotto artistico, hanno spesso bisogno di un lungo arco temporale per fermentare e trovare le parole e le immagini giuste per farsi racconto e storia universali. È quello che è accaduto a Francesca Comencini nella realizzazione di un film che è un atto d’amore verso il proprio padre. Infatti, oltre alla regia elegante e ordinata, a investire lo spettatore è una emozionalità potente che scaturisce da un sentimento profondo per una figura paterna caratterizzata dalla gentilezza e dalla bontà. 

“Wolfs” e il potere dell’alchimia

Vecchie glorie dei bei tempi andati? No, solamente vecchi. In tal senso, l’omaggio ai corpi di Clooney e Pitt è forse quanto di più semplice, elementare e sbagliato ci sia all’interno del film (siamo ancora fermi ai dolori alla schiena o agli occhiali da vista per proporre l’autoironia incentrata sulla decadenza fisica?), ma proprio per questo riuscito, poiché in grado di mostrare il fianco alla componente più umana e genuina che Watts vuole esaltare.

In ricordo di Maggie Smith

Maggie Smith è riuscita ad attraversare il cinema (e la televisione, e il teatro) con una leggerezza ironica, con un senso dell’umorismo vivace e brillante, che traspariva sempre, anche nelle interpretazioni drammatiche. Si potrebbe dire che è stata l’ultima delle attrici classiche e la prima delle grandi attrici moderne; un’interprete di solida formazione e di straordinaria finezza che ha saputo creare e mantenere la sua fama senza abdicare alla qualità dei ruoli, senza cedere mai alla maniera.

“La moglie dell’aviatore” dentro le traiettorie del cuore e del destino

Con La moglie dell’aviatore, Rohmer inaugura un esperimento antropologico (dopo la sociologia dei Sei racconti morali) costituito da una leggerezza formale e da una profondità di contenuti, in cui artificio e naturalezza si strizzano vicendevolmente l’occhio, basterebbe citare a tale proposito una delle ultime battute pronunciate da Anne: “La vita a me piace soprattutto quando assomiglia a un romanzo”.

“La bambina segreta” e lo spazio minato del mondo

È il regista-demiurgo a mettere in moto il meccanismo di inezie, a minare il set in cui si muovono gli attori, a disegnare l’apice della parabola drammaturgica nel confronto con il volto logoro del potere. A differenza però del successivo film del regista, Kafka a Teheran, il confronto si presenta non come un momento di liberazione, ma piuttosto come momento preparatorio. Se liberazione deve esserci, essa deve passare attraverso una presa di responsabilità personale.

Simbolismo queer nell’ombra di Lynch tra “Queer” e “Ho visto la TV brillare”

Queer e Ho visto la TV brillare sono quindi due film per certi aspetti comparabili, nonostante le differenze di storia, tono e sguardo autoriale: entrambi raccontano identità Lgbtq+ e, nel farlo, impiegano una modalità narrativa talvolta ermetica e straniante. Guadagnino lascia più zone d’ombra nell’interpretazione dei sogni e delle allucinazioni di Lee; Schoenbrun, invece, apre allo spettatore squarci perturbanti nella quotidianità dei suoi protagonisti.

Inventare Clint Eastwood (e inventare Sergio Leone)

Sergio Leone: “Andai a prenderlo all’aeroporto. Arrivò vestito col cattivo gusto degli studenti americani. Me ne fregavo. Erano il suo viso e la sua goffaggine a interessarmi. Parlava poco, come in Rawhide. Mi ha detto semplicemente: «Faremo un buon western insieme». Gli ho messo un poncho per ingrossarlo un po’. E un cappello. Nessun problema. Quadrava tutto, tranne che non aveva mai fumato. E si è ritrovato con un toscano in bocca, un sigaro duro e molto forte. Fu il suo unico calvario”. 

“Non aprite quella porta” e la bellezza dell’orrore

Nonostante la saturazione di un “marcio” che corrompe ogni cosa, Non aprite quella porta riesce a lasciarci radiose immagini simmetriche e visioni di sovrumana astrazione. Pur spazzando via qualsiasi illusione di cinema in posa, falsità da Studio e gusto conservatore della bellezza, il regista inietta una nuova, oscena concezione del Bello che si esprime nelle albe funebri, nelle danze folli e astratte di Leatherface, nel viso insanguinato di Sally, con una radicalità di cui pochi oggi sarebbero capaci.

“Vermiglio” alle radici del cinema olmiano

Maura Delpero attinge alle proprie radici per realizzare un film che vive una zona di mezzo tra un’epica di paese e un racconto di formazione famigliare. Il punto di partenza evidente è il ritratto etnografico dell’Olmi de L’albero degli zoccoli e alla funzione di dedizione a un mondo ormai perduto fatto di usanze, costumi, dialetti e al lavoro con gli attori non professionisti, aggiunge uno sguardo più ravvicinato sul piano intimo e sentimentale.

“Per un pugno di dollari” e la critica

La critica fu spiazzata dalla rivoluzione leoniana, e la famosa stroncatura di Mario Soldati aprì un periodo di feroce opposizione intellettuale alla violenza del western all’italiana. Poi nel tempo le cose sono cambiate, e quell’immoralità così indigesta fu compresa nella sua complessità e in un quadro di riferimenti culturali e sociali assai più ampi. 

“Madame Clicquot” e lo spirito della pioniera

Madame Clicquot  è un biopic immerso nei costumi e nell’ambientazione incline al vedutismo un po’ statico tipico dei period drama, tratto dal romanzo biografico The Widow Clicquot: The Story of a Champagne Empire and the Woman Who Ruled It della scrittrice e storica americana Tilar J. Mazzeo del 2009, che aveva già ispirato il musical di Broadway Madame Clicquot: A Revoluationary Musical.

“Linda e il pollo” senza graffi ma con spasso

I registi, il francese Sébastien Laudenbach e l’italiana Chiara Malta, raccontano con allegra esaltazione di una leggiadra uscita dalle norme, e del calore dei legami di quartiere fra palazzoni di periferia. Lo fanno con ampi e sparsi tratti, e definendo tutto mirabilmente col colore (Linda è interamente gialla, la madre arancione, e così via tutti i personaggi), quasi stessimo vedendo i disegni d’infanzia di Henri Matisse. 

“Love Lies Bleeding” speciale II – La violenza e l’estasi dell’amore “oltreumano”

Love Lies Bleeding è un titolo emblematico della sensuale corporeità e della sanguinosa (e sulfurea) violenza che intride la saffica relazione tra Lou e Jackie, ottenebrata dalla mefistofelica presenza di Lou Sr.., che le perseguita senza esclusione di colpi (di scena). Questo rapporto triangolare riecheggia Satan Watching the Caresses of Adam and Eve, una nota opera di Blake che illustra un episodio tratto da Paradise Lost, epico poema di John Milton. 

“Love Lies Bleeding” speciale I – Incubi della provincia americana

Sono fantasmi dell’inconscio individuali e prodromi di uno sradicamento sociale quelli raccontati da Rose Glass in Saint Maud e Love Lies Bleeding, finora i due unici film di un’autrice decisamente sui generis. Perché, in effetti, ciò che la regista fa affiorare sullo schermo, aderisce a una precisa scelta stilistica e a una poetica ben definita: l’allucinazione mistica o l’incubo lisergico, rispettivamente di una scomunicata e di due emarginate all’interno di contesti retrivi e corrotti.

Chiamate Beetlejuice e arriva Tim Burton

I trucchi del mestiere si mettono al servizio di un esorcismo su più livelli, una parata di freak — ognuno con un sensibile carico di solitudine e risentimento — e creature che danzano tra la vita e la morte nel tentativo di valorizzare l’eredità del trauma. Esattamente quel che fa Tim Burton con il suo, irrimediabilmente suo, Beetlejuice Beetlejuice: prendere in corsa il Soul Train per riscattare la propria anima.

“La sindrome degli amori passati” e dell’arguzia compiaciuta

La sindrome degli amori passati funziona a sufficienza se preso come semplice divertissement che intrattiene portando lievemente fuori asse lo status quo, ma come critica sociale che pretende di portare riflessioni – nemmeno tanto innovative, in verità – sulla coppia etero contemporanea lascia attorno a sé quel lieve imbarazzo di chi si sforza troppo di sembrare arguto e fuori dagli schemi.

“Limonov” dalla vita insoddisfatta e capricciosa

Serebrennikov riporta la versione romanzata delle ascese e delle cadute di Eduard Limonov, personaggio controverso e indecifrabile che ha vissute mille vite diverse: dall’infanzia e adolescenza di povertà e delinquenza all’ascesa sociale come giovane poeta cullato dalla società underground sovietica, fino alla permanenza a New York fatta di sesso, stupefacenti e ancora sesso e che fa da spugna che cancellerà tutto che è venuto prima, tranne la sete di riscatto di Eduard detto Eddie.

Note sulla trilogia di Ti West

Mentre critica e pubblico tornavano a celebrare il genere elevandolo (appunto) in ambito mainstream, Ti West sceglieva platealmente di esaltarne i toni più popolari, con lo sguardo specifico del contesto prescelto (in questo caso, il Texas nel 1979). “Omaggio”, “citazione”, “allusione”, “tributo” sono termini che capiterà di leggere praticamente sempre nei vari approfondimenti dei film in questione.

“Campo di battaglia” nel corpo dei feriti

Campo di battaglia si ispira al romanzo La sfida (2020) di C. Patriarca, ma deve, forse, il titolo a un lavoro precedente dello stesso scrittore: Il campo di battaglia è il cuore degli uomini (2013). Ed è al cuore degli uomini che Amelio colpisce con la sua opera, filmando con delicatezza e sobrietà la brutalità della guerra e la ricerca, disperata, di umanità: una riflessione sempre attuale e potente, resa con uno stile classico ma efficace.