“Linda e il pollo” senza graffi ma con spasso

I registi, il francese Sébastien Laudenbach e l’italiana Chiara Malta, raccontano con allegra esaltazione di una leggiadra uscita dalle norme, e del calore dei legami di quartiere fra palazzoni di periferia. Lo fanno con ampi e sparsi tratti, e definendo tutto mirabilmente col colore (Linda è interamente gialla, la madre arancione, e così via tutti i personaggi), quasi stessimo vedendo i disegni d’infanzia di Henri Matisse. 

“Love Lies Bleeding” speciale II – La violenza e l’estasi dell’amore “oltreumano”

Love Lies Bleeding è un titolo emblematico della sensuale corporeità e della sanguinosa (e sulfurea) violenza che intride la saffica relazione tra Lou e Jackie, ottenebrata dalla mefistofelica presenza di Lou Sr.., che le perseguita senza esclusione di colpi (di scena). Questo rapporto triangolare riecheggia Satan Watching the Caresses of Adam and Eve, una nota opera di Blake che illustra un episodio tratto da Paradise Lost, epico poema di John Milton. 

“Love Lies Bleeding” speciale I – Incubi della provincia americana

Sono fantasmi dell’inconscio individuali e prodromi di uno sradicamento sociale quelli raccontati da Rose Glass in Saint Maud e Love Lies Bleeding, finora i due unici film di un’autrice decisamente sui generis. Perché, in effetti, ciò che la regista fa affiorare sullo schermo, aderisce a una precisa scelta stilistica e a una poetica ben definita: l’allucinazione mistica o l’incubo lisergico, rispettivamente di una scomunicata e di due emarginate all’interno di contesti retrivi e corrotti.

Chiamate Beetlejuice e arriva Tim Burton

I trucchi del mestiere si mettono al servizio di un esorcismo su più livelli, una parata di freak — ognuno con un sensibile carico di solitudine e risentimento — e creature che danzano tra la vita e la morte nel tentativo di valorizzare l’eredità del trauma. Esattamente quel che fa Tim Burton con il suo, irrimediabilmente suo, Beetlejuice Beetlejuice: prendere in corsa il Soul Train per riscattare la propria anima.

“La sindrome degli amori passati” e dell’arguzia compiaciuta

La sindrome degli amori passati funziona a sufficienza se preso come semplice divertissement che intrattiene portando lievemente fuori asse lo status quo, ma come critica sociale che pretende di portare riflessioni – nemmeno tanto innovative, in verità – sulla coppia etero contemporanea lascia attorno a sé quel lieve imbarazzo di chi si sforza troppo di sembrare arguto e fuori dagli schemi.

“Limonov” dalla vita insoddisfatta e capricciosa

Serebrennikov riporta la versione romanzata delle ascese e delle cadute di Eduard Limonov, personaggio controverso e indecifrabile che ha vissute mille vite diverse: dall’infanzia e adolescenza di povertà e delinquenza all’ascesa sociale come giovane poeta cullato dalla società underground sovietica, fino alla permanenza a New York fatta di sesso, stupefacenti e ancora sesso e che fa da spugna che cancellerà tutto che è venuto prima, tranne la sete di riscatto di Eduard detto Eddie.

Note sulla trilogia di Ti West

Mentre critica e pubblico tornavano a celebrare il genere elevandolo (appunto) in ambito mainstream, Ti West sceglieva platealmente di esaltarne i toni più popolari, con lo sguardo specifico del contesto prescelto (in questo caso, il Texas nel 1979). “Omaggio”, “citazione”, “allusione”, “tributo” sono termini che capiterà di leggere praticamente sempre nei vari approfondimenti dei film in questione.

“Campo di battaglia” nel corpo dei feriti

Campo di battaglia si ispira al romanzo La sfida (2020) di C. Patriarca, ma deve, forse, il titolo a un lavoro precedente dello stesso scrittore: Il campo di battaglia è il cuore degli uomini (2013). Ed è al cuore degli uomini che Amelio colpisce con la sua opera, filmando con delicatezza e sobrietà la brutalità della guerra e la ricerca, disperata, di umanità: una riflessione sempre attuale e potente, resa con uno stile classico ma efficace.

“April” e la ferocia imperturbabile del patriarcato

Dea Kulumbegashvili articola un film stratificato, sotto certi aspetti criptico, testimone di una violenza brutale e disumanizzante. Con la calma del serial killer conduce lo sguardo del pubblico dove altrimenti non lo poserebbe, senza la minima paura della complessità. Il merito di April infatti è proprio quello di non accettare compromessi, di seguire la sua strada pur rischiando di non farsi comprendere, accogliendo la responsabilità di dare voce a chi non ha né la possibilità né il diritto di esprimersi.

“Leurs enfants après eux” realistico e inafferrabile

Istintivo come il battito del cuore, il film è un melodramma su un’Europa in costante evoluzione non così lontana dall’attuale, frammentario e ribelle, come i prodotti che ambiziosamente desiderano diventare inni generazionali, senza però abbandonare un’evidente perfezione formale . Attingendo a piene mani nella libertà narrativa concessa dal romanzo di origine, Leurs enfants après eux è un’opera insieme realistica e inafferrabile.

“Broken Rage” e il trasformismo di Takeshi Kitano

In Broken Rage Kitano gioca col suo alter ego, con la sua espressione minacciosa, trasformandola nel suo opposto, quella di un anziano che sente su di sé il fardello dell’età. Vederlo stramazzare al suolo in più occasioni ha un effetto quasi struggente, è l’umiliazione di un uomo che ha suscitato emozioni fortissime in film come Sonatine o Hana-bi. Ma fa tutto parte del piano: Kitano è allergico alle etichette, intollerante a qualunque tipo di definizione.

“Diva Futura” e la favola di un porno che non esiste più

Il film circumnaviga gran parte delle domande che potrebbero sorgere, preferendo concentrarsi sul racconto di una favola tutto sommato scanzonata e dolceamara di un uomo che sognava troppo in grande per il Paese in cui viveva. Ripensando a Supersex (la serie su Rocco Siffredi uscita su Netflix) viene da chiedersi se il 2024 sia l’anno in cui l’Italia cerca di fare pubblicamente pace con il porno

Il film dimenticato di Nagisa Oshima tra sensualità e politica

Prima ancora di essere un film Storia segreta del dopoguerra è una riflessione sul senso stesso del cinema, sul valore dell’immagine e sul suo rapporto con la realtà. Allo stesso tempo si intreccia con la storia, con l’impotenza e il dogmatismo dei collettivi di cui lo stesso Oshima faceva parte. “Leggigli una favola trotzkista” dice a un certo punto, senza ironia, uno dei membri del collettivo a Yasuko per calmare il traumatizzato Shoichi, come se l’arte dovesse essere necessariamente ideologica.

“The Room Next Door” ode all’autodeterminazione

The Room Next Door, nuovo film di Pedro Almodóvar, ha il ritmo del moto ondoso, una fluidità in cui i fitti dialoghi tra Martha e Ingrid oscillano con la delicatezza di una nave che viaggia verso l’orizzonte. Non ci sono picchi di tensione, non c’è disperazione, ma soltanto l’accettazione di qualcosa che sta finendo. È la vita stessa, nella sua caducità, che si anima e assume significato nelle parole delle due protagoniste.

“Queer” tra idea di adattamento e idea di cinema

Il “disincarnato” di Queer fa coesistere libertà di movimento (fuga) con il vincolo intimo (specchio), l’emancipazione visiva con il nodo personale: la teoria con l’intimità. La finzione diventa manifesta simulazione (di sé), l’esperienza disincarnata è contemporaneamente fuoriuscita e ingresso, sia fluttuare nello spazio lontano che fondersi dentro a un corpo vicino, osservarsi o sapersi osservati da sé stessi (come scrivere o essere scritti).

“Happyend” coming of age politico

Con una regia elegante, briosa ed efficace il giovane regista giapponese (ha solo trentatré anni) ha la capacità di intrecciare con la consapevolezza del veterano le traiettorie di un gran numero di temi e personaggi, mantenendo sempre lo sguardo sull’obiettivo. Happyend è un’opera profondamente sentita e ispirata che ci invita ad accogliere le nostre responsabilità nel trasformarci in parte attiva per un cambiamento che di giorno in giorno diventa sempre più necessario.

La serialità secondo Thomas Vinterberg

Lo smantellamento della condizione agiata della borghesia europea rimane un punto focale per il cinema di Thomas Vinterberg. Il mutare del medium a disposizione non diminuisce la ferocia del suo attacco, il rimpicciolimento dello schermo cui il prodotto è destinato non impedisce di espandere la portata della sua visione, che si allarga per abbracciare le possibilità narrative consentite dalla narrazione seriale.

“MaXXXine” come diritto al godimento

Si sente affermare troppo spesso che West è un citazionista pop che scherza con il cinema del passato, ma se questa definizione potrebbe in parte andare bene per il suo collega Eli Roth non si addice decisamente a lui, inquanto dietro allo spudorato velo del facile giochino cinefilo si nascondono riflessioni molto più pregnanti, come ad esempio il concetto di ridisegnare e risignificare il corpo femminile all’interno del cinema contemporaneo, filtrandolo attraverso l’estetica vintage.

“The Brutalist” poderoso e inarrestabile

Al suo terzo lungometraggio da regista, Brady Corbet cementifica la sua concezione del cinema come specchio epicizzante della modernità. Terzo lungometraggio e terza biografia fittizia di una personalità simbolo della propria epoca, la cui vita diventa spunto drammatico per uno squarcio sul mondo l’ha portata all’emersione. Questo è The Brutalist, il lavoro produttivamente più ambizioso del regista e affermazione definitiva della sua autorialità.

“Cloud” e la schizofrenia della contemporaneità

Seppur non sia il miglior film del regista giapponese, per una piattezza formale e di sostanza che non appartiene a capolavori del calibro di Tokyo sonata o lo stesso Kairo, Cloud ha il merito di riprodurre efficacemente la schizofrenia della contemporaneità. Di fronte ad un mondo in cui il senso di fine si fa sempre più ingombrante, Kurosawa mostra come l’umanità si sia chiusa in se stessa, atomizzandosi, sempre alla ricerca di un nemico su cui scaricare la propria rabbia.

“Maria” tra la voce e il corpo

Con Maria, Pablo Larraín prosegue un progetto cinematografico ormai evidente ma pieno di deviazioni e forse non così dichiarato quanto sembra. Prosegue la sua “missione biografica femminile” che trova in Jackie e Spencer le due massime espressioni: sono biopic svuotati e rielaborati a partire dai corpi (vedi anche Ema), intitolati con il meno storicizzato tra cognome e nome della protagonista (già dichiarazione d’intenti), incentrati su figure di potere come gabbie e maledizioni.