“La stanza accanto” speciale III – Abitare gli ambienti in pacifica attesa
Abbandonato ogni sentimentalismo mediterraneo, l’irriducibile human voice del settantenne Almodóvar rappresenta le donne di La stanza accanto quali entità cui vedere attraverso, come lo sono per Ingrid e Martha le vetrate dell’ospedale, del cinema di New York in cui guardano Viaggio in Italia e della casa in cui si ritirano per ammazzare letteralmente il tempo che le separa dal saluto. Guardando classici del cinema sullo schermo (vetro) della tv.
“La stanza accanto” speciale II – L’amico come testamento
Il regista ci ripropone il gusto, già presente nelle sue ultime pellicole, per una composizione delle inquadrature sempre più studiata, geometrica, dominata da colori squillanti e contrastanti (qui i complementari rosso e verde con incursioni di giallo, blu e viola accesi) e tinge nuovamente il melodramma di sfumature hitchcockiane – dalle sequenze di Ingrid che sale la scala per spiare la porta rossa a quelle finali dalle tinte thriller, fra costruzioni di alibi e interrogatori – sottolineate dalla musica, a tratti ossessiva, di Alberto Iglesias.
“La stanza accanto” speciale I – L’umanità fredda
La stanza accanto è un film a due voci (solo sporadicamente include un terzo personaggio consistente, interpretato da John Turturro), a tratti quasi una pièce teatrale, in virtù della pervasività dei dialoghi tra le due donne che vanno a comporre una vera e propria dissertazione sulla morte. Almodóvar realizza una sceneggiatura densa, capillare, razionale e profondamente analitica che viene umanizzata dalla bravura delle due attrici protagoniste.
“The Room Next Door” ode all’autodeterminazione
The Room Next Door, nuovo film di Pedro Almodóvar, ha il ritmo del moto ondoso, una fluidità in cui i fitti dialoghi tra Martha e Ingrid oscillano con la delicatezza di una nave che viaggia verso l’orizzonte. Non ci sono picchi di tensione, non c’è disperazione, ma soltanto l’accettazione di qualcosa che sta finendo. È la vita stessa, nella sua caducità, che si anima e assume significato nelle parole delle due protagoniste.
“A Strange Way of Life” e il desiderio del western
Almodóvar non vuole rifare il western classico, lo vuole reinventare. E lo fa senza eludere le caratteristiche di genere ma rivisitandole e aggiungendo al tutto una tensione ambigua, sotterranea e pronta a esplodere con violenza come accade in un altro western recente quale Il potere del cane di Jane Champion, a cui il regista ha confessato di aver guardato. Inoltre vanta una cornice di arredi, abiti e oggetti di scena elegantissimi, frutto della collaborazione con Yves Saint Laurent.
“Madres paralelas” e i solchi immateriali della vita
L’urgenza filmica non è né quella storica e sociale, che pure attraversa in modo carsico la pellicola, né quella melodrammatica, supportata dalla trama e dalla intensa partitura musicale di Alberto Iglesias, e nemmeno quella trasgressiva, barocca e pop del primo Almodóvar, di cui troviamo qualche traccia sparsa. Da Julieta in poi il tono almodovariano si è fatto sempre più intimo e introspettivo e anche in questo film pare che l’interesse maggiore non sia rivolto tanto alle componenti melò, sociali, di genere o storiche, quanto a quello che Dolore, Gloria e Storia marchiano a fuoco sulle nostre vite, lasciando solchi immateriali ma profondi, come in una sorta di DNA non scritto.
Proprio come il cinema. “Madres paralelas” tra antropologia, mito e letteratura
Almodóvar continua ad approfondire temi a lui cari come la maternità, la solidarietà femminile, l’indipendenza della donna dall’universo maschile e la memoria. È la maternità a legare Janis ad Ana, dapprima madri parallele perché partorienti in contemporanea, poi amiche e successivamente perfino amanti. Le loro maternità però si intersecano perché c’è subito il dubbio che le neonate riconsegnate loro dopo il periodo d’osservazione non siano le rispettive figlie. Janis si trova così a dover prendere decisioni difficili che implicano un conflitto tra il proprio desiderio di essere madre e l’etica che la verità richiede.
Dolore e gloria dell’amore spezzato. “The Human Voice” tra finzione e realtà
Poco drammatica e molto ironica, giocata su incastri a scatole cinesi di finzione e realtà, la versione di Almodóvar dell’opera di Cocteau si allontana dall’originale con un finale nuovo, e segna uno scarto dal suo precedente cinematografico più illustre, diretto da Rossellini nel 1948 con l’interpretazione di Anna Magnani. Nell’arco che li collega a cominciare dal minutaggio, del tutto assimilabile, è soprattutto il disegno della figura femminile a fare da specchio dei tempi. Sottomessa, disperata e implorante la Magnani di Rossellini, post-moderna, misteriosa e reattiva la Swinton di Almodóvar.
Venerati maestri del cinema contemporaneo
A chiusura del 2019, approfondiamo il tema dei “venerati autori”. I grandi cineasti della vecchiaia. In fondo è stato comunque l’anno dei maestri, aperto dalla lectio magistralis più anarchica: quella di Clint Eastwood (quasi novant’anni, ma chi ci crede?), il corriere che continua a dirci che non esiste un mondo perfetto. Ciclicamente promette che non tornerà di nuovo in gioco: e quando pensi che sia l’ultima volta, sfoderi la retorica del testamento, ti consoli nel ritrovarlo dietro la macchina da presa… ecco che ritorna. E poi Allen, Avati, Bellocchio, Leigh, Polanski, Scorsese, e altri.
“Dolor y Gloria”, il cinema e il tempo che passa
Ci stupisce questo film, che nello stile non sembra quasi appartenere ad Almodóvar ma che è completamene fatto di lui e del suo cinema. Ci inchioda alla sedia della sala questa narrazione asciutta, sobria, matura, quasi trattenuta che si veste dei suoi soliti sgargianti colori – su tutti il verde, il rosso e l’azzurro – ma senza il sovraffollamento barocco a cui ci ha abituati. Ci incanta questo racconto che cita continuamente le pellicole passate e la sua vita presente, ma che travalica il dato biografico per diventare riflessione sul tempo che passa e in fondo anche sul cinema, sulla sua genesi e sul suo mutare.
“Dolor y Gloria”, cinema che genera cinema
Arrivato a settant’anni, che compirà fra qualche mese, Pedro Almodóvar si sente fragile, nel corpo e nella mente, e anche per questo desideroso di ricordare il suo passato, celebrare l’amore per sua madre e quello che da lei ha ricevuto, ringraziare il pubblico, i suoi attori, il cinema e l’uomo della sua vita. Scrive un film su di sé, in bilico fra autobiografia fedele e verosimile, si fa interpretare dall’attore più rappresentativo del suo cinema (Banderas), e affida il ruolo della mamma di Pedro bambino all’attrice che lui più di tutti ha contribuito a far sbocciare (Penelope Cruz). In un moltiplicarsi irregolare di proiezioni di sé, dietro cui nascondersi e mostrarsi come mai prima, si accomoda sul lettino dell’analista e svela in una seduta dall’andamento circolare i suoi acciacchi, la depressione, le ferite e le scoperte dell’infanzia, l’omosessualità e il potere del cinema.