Realizzato nel 1961, A cavallo della tigre riuniva il meglio della commedia all’italiana. La sceneggiatura era, infatti, opera dello stesso regista del film, Luigi Comencini, fresco dei grandi successi di Tutti a casa (1960) e del dittico Pane, amore e fantasia (1953) e Pane, amore e gelosia (1954), Mario Monicelli e della collaudata coppia Age e Scarpelli, che aveva già collaborato con Comencini per il precedente Tutti a casa.
Una squadra, qui anche in veste produttiva insieme ad Alfredo Bini, che aveva dato prova in passato di saper rappresentare l’evoluzione del costume italiano sintonizzandosi con le aspettative del grande pubblico, grazie anche all’ironica attenzione con cui l’attualità e la società italiana venivano osservate. Agli autori si aggiungevano gli attori a creare ancora maggiori aspettative di un grande successo di pubblico: Nino Manfredi, Valeria Moriconi, Gian Maria Volonté e Mario Adorf. Con queste garanzie, al film fu riservata l’uscita in sala più ambita, quella del Natale 1961.
Tuttavia, fu un clamoroso insuccesso commerciale. Ancora dodici anni più tardi, in occasione della proiezione del film alle “Giornate del cinema italiano” del 1973 in contrapposizione alla Mostra di Venezia diretta da Rondi, Comencini e Monicelli continuavano a interrogarsi sulle ragioni del giudizio negativo del pubblico verso il loro film, che, tuttavia alle “Giornate”, secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, “ha procurato divertimento e interesse al pubblico eterogeneo, come se non fossero trascorsi dodici anni da quel Natale caratterizzato dal boom economico”.
Forse A cavallo della tigre risultava un film più attuale nel 1973 che non alla sua uscita in sala, perché le vicende tragicomiche dell’umile autista Giacinto Rossi (Manfredi), prima l’arresto per una piccola truffa, poi la prigionia in cui tenta di sopravvivere come meglio può con il suo carattere debole, quindi l’avventurosa fuga dal carcere a cui è costretto dai compagni di cella Tagliabue (Adorf), Papaleo (Volonté) e Sorcio (Bussières), tutti omicidi, mostrano un’Italia che non ha beneficiato del boom economico.
In questo, quindi, il film di Comencini era più intonato con il pessimismo che iniziava a serpeggiare con le prime manifestazioni della recessione che avrebbe colpito pesantemente nel 1975, piuttosto che con l’ottimismo di una crescita ancora in corso, che, pur facendoci ridere, il film denunciava già come effimero e fonte di esclusione sociale. Dal boom non si scende, come quando sei a cavallo della tigre, perché, nelle parole di Giacinto, altrimenti “ti se magna”.
I protagonisti vivono ai margini della società come i personaggi incontrati durante la fuga: la contadina che Tagliabue vuole violentare, la donna del Sorcio, la moglie di Giacinto, Ileana (Moriconi), che è stata sfrattata e vive in una modestissima baracca grazie al nuovo compagno Coppola, affetto da silicosi.
Gli stessi luoghi attraversati dai quattro evasi non mostrano nessun segno riconducibile all’iconografia del boom. L’unica scena urbana è immersa nel traffico cittadino, in cui gli evasi non sanno muoversi, “un traffico cresciuto durante la nostra assenza”, rimarca Giacinto, evidenziando ancora una volta la loro esclusione dai benefici della crescita economica. Lo stesso “tempo libero”, tratto caratterizzante del boom (soprattutto se pensiamo alle rappresentazioni cinematografiche del fenomeno), ha, pur nei toni di commedia del film, un aspetto sinistro.
Il cinema diventa una trappola e inghiotte letteralmente Papaleo, i luoghi della “villeggiatura balneare” sono visti attraverso gli occhi della fidanzata di Papaleo, costretta a lavorarci con umili mansioni per di più insieme all’anziana madre. E la vicenda di Papaleo, in carcere per aver compiuto il delitto d’onore, come lo sfratto di Ileana ci ricordano che il progresso economico non ha portato sviluppo sociale e politico.
Un’Italia che, pur mostrata suscitando riso e divertimento per le numerose gags e situazioni surreali, il pubblico del 1963 non voleva vedere.