Nella sterminata filmografia di Mastroianni, un film come I compagni rischia di apparire come secondario, soverchiato da un numero invidiabile di classici usciti a brevissima distanza. In quei tre anni – dal 1960 al 1963 – arrivarono sullo schermo, una dopo l’altra, le perfomance più ricordate dell’attore, che si giostrava tra il gotha di registi del decennio passato e presente: dai capolavori felliniani (La dolce vita, 8 e ½) a Ieri, oggi e domani di De Sica, passando per i ruoli siciliani del bell’Antonio e del barone Fefè Cefalù, senza dimenticare l’esperienza con Antonioni in La notte. Di fronte a titoli così ingombranti, fondamentali per l’esplosione dell’icona Mastroianni nell’immaginario collettivo, sembra spontaneo attribuire un’importanza minore, per la sua carriera, alla pellicola di Monicelli: addirittura, potremmo essere quasi spinti a disconoscerlo, mascherato com’è – nella sua mise quasi irriconoscibile – da quella barba e quegli improbabili occhiali da intellettuale d’antan. Al contrario, un’interpretazione come quella sfoderata nel film in questione rende giustizia alle capacità camaleontiche del nostro, in un ruolo quasi antitetico rispetto ai personaggi interpretati sotto lo sguardo di Antonioni e Fellini: se eravamo abituati a ravvisare nei suoi tratti lo sguardo del dubbio, ne I compagni ci troviamo di fronte a un idealista che tendenzialmente non può permettersi tale lusso.
Mastroianni, si diceva, interpreta la parte del professor Sinigaglia, intellettuale socialista che, ricercato per aggressione a pubblico ufficiale, giunge nella periferia torinese per fuggire alla giustizia: una volta a Torino, arrivato a conoscenza delle neonate lotte alla fabbrica, non esita a fornire la propria esperienza per sostenere le istanze operaie. L’incontro tra Sinigaglia e gli operai non è solo un casuale incrocio in una storia minore, ma arriva a rappresentare quella che per Monicelli fu la rivoluzione copernicana della lotta di classe: il passaggio dalle prime esperienze di protesta all’organizzazione strutturata della lotta sindacale. Il personaggio di Mastroianni incarnerebbe quindi la figura marxista-leninista dell’avanguardia rivoluzionaria, ovviamente nel solco dell’interpretazione di un regista che non nascondeva simpatie socialiste. Da qui, capiamo benissimo come il rivoluzionario Sinigaglia non possa permettersi di dubitare di sé stesso o delle proprie azioni: nemmeno la sfera dei sentimenti – la pietà verso la situazione dell’operaio siciliano Salvatore o l’infatuazione per la bella Niobe – può distoglierlo dal suo compito di agente della Storia. A conferma di ciò, notiamo come l’entrata in scena dell’attore si configuri con i tratti del deus ex machina: nel mezzo di un confronto poco pacato dagli operai, lo vediamo comparire all’improvviso, in un campo lungo, mentre si sporge da un treno di passaggio.
La scena, allo stesso tempo, appare come gag comica: ci dice molto di un film affrontato – così come il precedente La grande guerra – tramite le lenti del tragicomico, considerato come l’unica modalità espressiva in grado di riportare fatti storici senza una rappresentazione monocolore, che agli sceneggiatori sembrava più manierista che realistica. La delineazione di Sinigaglia viene resa sullo schermo con una rappresentazione quasi opposta a quella dei lavoratori: se le vicende operaie vengono raccontate con una prospettiva corale, resa tramite piani sequenza, Mastroianni è pieno padrone nelle sue apparizioni, in cui si staglia sopra i suoi compagni, nel tentativo di infondere loro una mentalità organizzata e consapevole.
Allo stesso tempo, tuttavia, anche un personaggio così idealista non può non presentare delle ambiguità di fondo: dietro le convinzioni politiche si nasconde l’uomo, con le proprie paure e con i propri bisogni. Così, quando non è occupato nei suoi appassionati sermoni, Sinigaglia viene perseguitato costantemente dalla fame, che lo conduce quasi all’empietà del furto verso gli stessi operai: la scena in cui viene scoperto un attimo prima di addentare il panino di un lavoratore ha le stimmate della gag, ma riesce a raggelare lo spettatore per l’imbarazzo. E l’abilità di Mastroianni consiste soprattutto in questo: nel riuscire ad interpretare compiutamente le dualità che animano il proprio personaggio, codardo e coraggioso, martire e affamato, ligio al suo dovere ma non insensibile. Dualità che trovano la propria soluzione nel finale, quando l’imperativo categorico dell’impegno politico prende il sopravvento sulla paura, sui bisogni fisici e su quelli affettivi: il timore dell’arresto non funziona più come deterrente, sovrastato dalla consapevolezza del professore sulla necessità del proprio agire.
Così, similmente a quanto accade ne La grande guerra, i protagonisti hanno facoltà di scegliere il proprio finale. Anche in questo caso la scelta sarà quella più difficile e allo stesso tempo pregna di una profonda dignità: Mastroianni/Sinigaglia vi si sottopone con uno stoicismo ammirevole, senza opporre resistenza alla forza pubblica, conscio che il suo obiettivo – l’inseminazione di un’organizzazione delle lotte e la sensibilizzazione degli operai – è già stato raggiunto. L’autocoscienza di essere un semplice congegno della Storia anima il professore: proprio come il suo interprete, sempre disponibile a divenire volto e strumento delle volontà dei suoi innumerevoli registi.