In un parco, Edward si consuma d’invidia, osservando le coppie che gli sfilano davanti, mano nella mano. Marchiato sul volto da una neurofibromatosi, abituato a subire in silenzio gli sguardi raccapricciati degli altri, incrocia, in un campo-controcampo, l’impassibile sguardo di una statua vivente di Lincoln, la cui assenza di giudizio lo inquieta. Edward, inetto attorucolo che lotta per occupare i pochi spazi riservati alle persone con disabilità, non sopportando più la sua condizione procede a cancellare chirurgicamente la propria deformazione facciale.
Rimasto semplicemente un inetto attorucolo, si vede scavalcato da Howard, un suo “doppio” più talentuoso, in un'opera teatrale basata sulla sua vita. Ora, nello stesso parco, è Howard, divertito, a fissare la statua, ma stavolta la cinepresa si ferma sul volto livoroso di questo novello Rupert Pupkin, sul punto di esplodere in un gesto di follia, proprio come l’assassino di Lincoln.
Nel film di Aaron Schimberg, una strana tensione interna governa la mimesi. Questo perché A Different Man è prima di tutto una differente bestia rispetto al resto della produzione americana, rifuggendo i suoi cul-de-sac odierni: né cieca fiducia nelle convenzioni di genere (niente sacralità del genere), né elevazione stilistica (niente sacralità autoriale), ma, piuttosto, apocalisse delle convenzioni.
Trasferitosi, prima dell'operazione, in un nuovo appartamento, questo “giovane, nervoso Woody Allen” (come lo definisce un vicino) crede di aver trovato la sua Annie Hall nella ragazza della porta accanto. Affiancati sul divano, per un attimo sembra che la scintilla possa scoccare, prima che l'imbarazzo spezzi la magia, rivelando quella conversazione come nient’altro che un gesto di cortesia. Una folta coltre di autocommiserazione avvolge questo Woody deformato rendendo impossibile qualsiasi “commedia romantica”, spingendo le atmosfere sempre più paranoiche e cupe verso l'horror.
Ma questo destino orrorifico autoimposto, fatto passare ormai come cifra stilistica dell'A24, qui assurge a ennesima teoria a cui si crede di essere condannati. Siamo tutti “chained for life” (come recita il precedente film di Schimberg), o, per dirla con Heidegger, caduti nel linguaggio, in un’apocalisse di regole di inclusione e leggi di convivenza che il difforme, alla ricerca di autenticità, non riesce più a tollerare. Da vero altmaniano, Schimberg non trova il suo anticonformismo sotto la bandiera del difforme ma nell'incrocio di sguardi, di movimenti di macchina (naturalezza del piano sequenza contro artificio dello zoom), nelle contraddizioni intrinseche al linguaggio.
Una straordinaria convergenza autoriale vuole che Sebastian Stan, dopo The Apprentice, incarni ancora una volta il corpo deformato di un’America mediocre, sprofondata nell’abisso trumpiano. Se nel film di Abbasi Stan interpretava l’uomo del secolo, cannibalizzato dall’immaginario vampiresco, qui si posiziona ad altezza dell'uomo medio che si vede sorpassato da un mondo che continua a produrre nuove convenzioni.
L'opera basata sulla sua vita, kaufmanianamente, si apre, si espande, integra sempre più prospettive, elevandosi, come il film stesso, a lezione di relativismo, mentre l’omuncolo trumpiano, fallendo miseramente nell’adesione a questo nuovo mondo, trama nell’ombra una qualche forma di vendetta sociale. Il suo ripiegamento egoistico, letteralmente, finisce per schiacciarlo, in modo quasi cartoonesco, nell'unico attimo di reale ilarità che questa fallita marionetta sia mai riuscita a produrre. Alla fine, al centro dello schermo non rimane che un vuoto, perfetta rappresentazione di un’America inghiottita dalle sue stesse pulsioni identitarie.