Cominciamo a occuparci del grande mese-Vigo proposto dalla Cineteca di Bologna in tutta Italia con alcuni approfondimenti critici e documentali. Le parole di Truffaut, Ghezzi, Gomes e Grande illuminano da par loro il capolavoro L'Atalante anche se a precederle ci piace mettere il fulminante commento di John Grierson:

“È uno stile palpitante. Alla base c’è un senso del realismo documentario che rende la chiatta una vera chiatta, così precisa nella sua topografia, che vi ci potremmo orientare a occhi chiusi in una notte di vento. E questo è importante sia per una chiatta fluviale sia per un battello, ed è quanto i film sul mare non hanno mai capito”

(John Grierson, “Cinema Quarterly”, n. 5, autunno 1934)

 

Seguono ora le altre testimonianze critiche:

In L'Atalante si trovano, riconciliate, due grandi tendenze del cinema, il realismo e l’estetismo. Ci sono stati nella storia del cinema dei grandi realisti come Rossellini e dei grandi esteti come Ejzenštejn, ma pochi cineasti si sono provati a fondere le due tendenze quasi fossero contraddittorie. Per me L’Atalante contiene nello stesso tempo À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960) di Godard e Le notti bianche (1957) di Visconti, vale a dire due film incomparabili, che sono certamente l’uno agli antipodi dell’altro, ma che sono anche quanto di meglio si è fatto in ciascuna delle due direzioni. Nel primo si tratta di accumulare frammenti di verità che combinati assieme condurranno a una sorta di favola moderna; nel secondo invece si parte da una favola moderna per ritrovare alla fine del viaggio una verità globale. Infine ritengo che spesso si sottovaluti L‘Atalante vedendovi un piccolo tema, un tema ‘particolare’ in opposizione al grande tema ‘generale’ trattato in Zéro de conduite.
L’Atalante
 affronta in realtà un grande tema, raramente trattato dal cinema, l’esordio nella vita di una giovane coppia, le difficoltà di adattarsi l’uno all’altra, con all’inizio l’euforia dell’accoppiamento (ciò che Maupassant chiama “il brutale appetito fisico ben presto spento”), poi i primi scontri, la rivolta, la fuga, la riconciliazione, e finalmente l’accettazione dell’uno da parte dell’altra.

(François Truffaut, I film della mia vita, Marsilio, Venezia 2003)



Lo schema della produzione era lo stesso di Zéro de conduite. Nounez metteva il denaro liquido; la Gaumont forniva gli studi e la pellicola e sì’incaricava della distribuzione. […] I ruoli principali vennero assegnati ad attori conosciuti: Michel Simon e Dita Parlo. Dita Parlo era un prodotto dell’ultimo periodo del cinema muto in Germania. […]
Michel Simon aveva un’esperienza decennale. […] Persone del suo ambiente si stupirono nel vederlo accettare una parte nel film di un giovane che era praticamente un esordiente. Avrebbe risposto loro che aveva accettato proprio perché si trattava di Jean Vigo: Simon provava simpatia per questo ragazzo non conformista contro il quale si era accanita la censura. Il suo consenso a lavorare sotto la direzione di Jean Vigo ebbe verosimilmente il merito di far cadere le ultime resistenze di Bedoin, Beauvais e Anglade, l’antipatico trio di funzionari degli studi Gaumont.
La decisione di scritturare Michel Simon e Dita Parlo ebbe il consenso pieno e sincero di Vigo. D'altra parte, in caso contrario, non avrebbe potuto cambiare un bel niente. Restava tuttavia a Vigo la libertà di scelta per gli altri attori e, fedele alla sua équipe, aveva già impegnato Jean Dasté e Lefèvre, coprendo così i ruoli principali.
Vigo conservò anche quasi interamente l’équipe artistica e tecnica di Zéro de conduite: Kaufman, Riéra, Merle, Jaubert e Goldblatt. […] Con la collaborazione di Riéra, Vigo aveva preparato un copione minuzioso e Nounez, che voleva un lavoro accurato, aveva chiesto a Blaise Cendrars di revisionare i dialoghi di Vigo. Lo scrittore non ebbe da fare alcun appunto, e quindi da quel lato tutto era a posto.
Vigo aveva anche approfittato delle prime settimane estive per fare lunghi giri in barca e familiarizzarsi, insieme a Dasté, con l’uso del timone e dei lunghi ganci delle chiatte. Alcuni giorni dopo aver letto la prima sceneggiatura, Vigo aveva chiesto a Georges Simenon, tramite Merle, informazioni sui canali, le chiuse, i villaggi marittimi, e lo scrittore gli aveva mandato qualche informazione. Aveva già scelto la chiatta del film, si trattava della ‘Louise XVI’ di proprietà dell’Unione delle miniere e industrie affini. La chiatta, benché dotata di un motore a nafta, risaliva ai tempi in cui i cavalli trainavano le chiatte lungo le alzaie.

(Paulo Emilio Sales Gómes, Jean Vigo. Vita e opere del grande regista anarchico, Feltrinelli, Milano 1979)



Il rapporto che ebbe Vigo con il soggetto originale de L’Atalante consente di farsi una idea della sua capacità di ‘manipolazione creativa’ di un materiale precinematografico assai banale e denso di ambigui luoghi comuni, per cavarne un film tutto giocato sulle atmosfere. Nel processo di trasformazione del soggetto originale in messa in scena cinematografica Vigo altera sensibilmente la natura della vicenda narrata e il carattere dei personaggi. Ma, quel che è più importante, riesce a fare delle atmosfere cinematografiche il vero ‘soggetto’ del film.
Per ‘atmosfere cinematografiche’ intendo non solo gli ‘effetti’ stilistici o espressivi prodotti come il risultato di un certo modo di operare con la macchina del cinema. Piuttosto, intendo la capacità di far scaturire dalle cose stesse o da una vicenda appena abbozzata, dal tratteggio in punta di pennello dei personaggi, l’alone del senso che li tiene in vita, che tiene in vita il film. Dunque, la capacità che ha il cinema – con certi cineasti – di creare atmosfere attorno a fatti e materiali, una atmosfera concreta, palpabile, fatta di luci e di oggetti, di corpi e di personaggi umani e naturali. […]
Mantenendo in apparenza intatto il filo conduttore della vicenda, Vigo ha trasformato radicalmente il senso del soggetto di Guinée, costruendo una storia che si regge sul bilanciamento della seduzione e dell’amore coniugale, e su una rara fusione tra la vita quotidiana, il lavoro e l’amore. Il gusto, l’esperienza e la sensibilità di Vigo si avvertono soprattutto nel tratteggio dei personaggi, nella manipolazione creativa dei corpi e dei luoghi, nel modo di riplasmare sotto l'intervento della macchina da presa i rapporti che legano gli uni agli altri. Rapporti delicati che si modificano impercettibilmente, giorno dopo giorno, durante lo scorrere lento della barca sui canali, durante l’alternanza di occupazioni giornaliere e pause della intimità, durante le tensioni tra l’amore e la curiosità per la vita immaginata in tutti i suoi aspetti. È così che prende corpo una visione complessa dell’amore e del piacere, il senso fisico della vita e del lavoro, la seduzione in tutti suoi aspetti e il richiamo alla saldezza delle scelte compiute.

(Maurizio Grande, Jean Vigo, La Nuova Italia, Firenze 1979)